Durante i miei tirocini di musicoterapia ho avuto l’occasione di introdurre il didje in maniera sperimentale e non continuativa. Il motivo per cui sono molto cauto nell’uso di questo strumento si basa su due principi: il primo è che per suonare il didje ci vuole una certa abilità che difficilmente le persone possiedono senza aver fatto un percorso minimo di studio pratico. Poiché la tecnica musicoterapica che utilizzo prevede l’interazione strumentale-sonora dell’utente, cerco abitualmente di mettergli a disposizione uno strumentario di semplice e immediato utilizzo come ad esempio le maracas, il tamburello, lo xilofono, i sonagli e così via.
Il secondo motivo riguarda la sonorità dello strumento che per sua natura non favorisce l’azione ma piuttosto una certa passività e in alcuni soggetti potrebbe indurre uno stato simile all’ipnosi impedendo così qualunque relazione con il mondo esterno.
E’ altresì corretto affermare che un suono in se non ha un potere o un significato particolare finché non incontra un soggetto che lo percepisce e lo elabora in maniera propria e quindi diversa da persona a persona.
Mi è capitato di suonare il didje per un gruppo di bambini affetti da vari tipi di problemi quali la sindrome di down, l’autismo o la paralisi cerebrale. Il bambino down dopo aver ascoltato con attenzione costante mi si è avvicinato per prendere il didje, quindi lo ha esplorato e in seguito lo ha portato alla bocca per farci dei versi, provando una certa soddisfazione.
Il bambino autistico, che non stava mai fermo un minuto e correva per la stanza come una trottola, non appena ha udito il suono del didje si è fermato e mi si è piazzato vicino, e poco dopo ha iniziato a percuotere il didje con le mani mentre io lo suonavo; quando ho smesso di suonarlo si è subito rimesso a correre per la stanza. Gli altri bambini invece stavano in silenzio e ascoltavano dandomi l’impressione che si trovassero in uno stato ipnotico. In un’altra situazione mi trovavo invece in un asilo nido con un gruppo di piccoli dell’età compresa tra i 2 e i 3 anni. Quando ho fatto loro ascoltare il didje sono rimasti seduti immobili ad ascoltarmi con la bocca aperta e gli occhi grandi. In seguito mi si sono avvicinati per vedere meglio lo strumento e toccarlo. Molti di loro si divertivano a guardare dentro come se fosse un cannocchiale e qualcuno ha provato a farci dei versi, il tutto con molta cautela e senza insistere più di tanto.
Per ultimo ho fatto sentire il didje ad un piccolo gruppo di adulti del centro psico-sociale di zona, persone con problemi mentali per intenderci. Hanno ascoltato con interesse il suono del didje, lo hanno trovato strano e particolare, nessuno di loro ha provato a suonarlo o a toccarlo.
Da queste brevi esperienze ho dedotto che il didje viene generalmente accolto con curiosità, interesse, sorpresa ma non ho avuto modo di vederne qualche effetto terapeutico, probabilmente perché sono state esperienze troppo brevi e non continuative.
In futuro mi piacerebbe introdurre il didje in musicoterapica, ma prima dovrò capire che utilizzo farne e con quali finalità proporlo. Ultimamente sono interessato all’interazione degli armonici vocali con il corpo e nel caso scoprissi qualche loro utilizzo a scopo terapeutico, potrei trasporre questa tecnica sul didjeridoo.
Pascal Rumi Marino www.pascalmarino.eu
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