Questa intervista non è fine a se stessa ma fa parte di un progetto, o meglio, di un’idea molto più ampia. L’intento è quello di capire come si sta evolvendo la scena del didgeridoo in Italia, cercando, con l’aiuto di professionisti e non, di tracciare delle linee guida che evidenzino l’evoluzione del didj in questi ultimi anni su territorio nazionale.
La prima tappa di questo “vibro-viaggio” parte da Firenze con Stefano Focacci.
La sua carriera musicale inizia con le percussioni suonando in alcune band della scena fiorentina. Suonatore di didgeridoo dal 1997 ha cercato e trovato un proprio stile creando patter ritmici accattivanti di matrice percussiva. Suona strumenti intonabili in pvc da lui costruiti prendendo spunto dall’ormai famoso didgeribone di Charlie McMahon che ha personalmente conosciuto e con il quale ha suonato al Didjefest di Cavour (Giugno 2003).
Vincenzo: Ciao Stefano, la prima domanda è d’obbligo: Come hai conosciuto il didgeridoo e quale è stato il tuo percorso formativo?
Stefano: Se non ricordo male, all’inizio degli anni ’90, quando lavoravo in un ingrosso di dischi/etichetta discografica, l’ho sentito in un disco dei Jamiroquai (quindi si trattava di Wallis Buchanan). Mi è piaciuto immediatamente il suono. Una volta acquistato il primo didjeridoo di bamboo (1997), il mio percorso formativo si è basato su un approccio assolutamente da autodidatta (non ho preso una sola lezione sulla tecnica dello strumento).
Vincenzo: Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato ?
Stefano: Crescendo in assenza pressoché totale di punti di riferimento, credo di avere sviluppato uno stile piuttosto personale, anche se cospicuamente indebitato con quelli di Charlie McMahon e Stephen Kent.
Vincenzo: Nel giugno del 2002 hai partecipato al Dreamtime Didjeridoo Festival di Berlino vuoi raccontarci qualcosa di quell’esperienza?
Stefano: Oltremodo divertente ed entusiasmante. Ho avuto modo di conoscere tutto il Gotha del didjeridoo mondiale (perlomeno dell’epoca). Anche senza assistere ad alcun seminario, sono tornato da là con il mio bagaglio tecnico relativo al didjeridoo grandemente arricchito.
Vincenzo: Cosa pensi dei festival attuali?
Stefano: Non sono in grado di rispondere perché l’ultimo al quale ho partecipato/assistito è stato il Didjfest 2004 a Pinerolo.
Vincenzo: A proposito di questo, in questi ultimi anni ti sei un po’ discostato dalla scena musicale; è stato per tua scelta, preferendo muoverti su altri canali ( es.youtube ), o qualcosa è cambiato nel tuo rapporto con il didgeridoo – pubblico?
Stefano: Diciamo pure che me ne sono quasi totalmente estraniato. Considera che il mio ultimo show ha avuto luogo nell’ambito delle manifestazioni di contorno dell’ On The Road festival di Pelago (almeno è stato un bello show…). Sui motivi relativi al mio discostarmi dalla scena preferirei glissare… Diciamo che, ora come ora, preferisco suonare unicamente
per me stesso e per il piacere che ne ricavo… Ovviamente, dovesse presentarsi l’occasione di un show, sarei PRONTO!
Vincenzo: Parlando del tuo cd “Breathing The Beat”, sicuramente al primo ascolto ci si accorge subito del tuo approccio volutamente minimale, quanto ha influenzato il tuo percorso da percussionista in questo lavoro?
Stefano: Moltissimo. Ogni mio brano parte da un pattern ritmico percussivo, da una notazione ritmica. Per esempio, il mio pezzo “Punji Pit” (in 11/8, con passaggio in 6/8 ha il riff di base ricalcato sul giro di basso iniziale di “Whipping Post” della Allman Brothers Band…
Vincenzo: Hai qualche aneddoto da raccontare riguardante la produzione di questo cd?
Stefano: Quasi tutti i pezzi sono stati registrati “buoni alla prima”. Ringrazio Ilario Vannucchi e Alessandro Baseggio per la collaborazione in qualità di “sound engineer”.
Vincenzo: Questo decennio è stato molto prolifico di artisti italiani ed esteri, molti hanno proposto tecniche e musiche innovative, si ha però il sentore che si sia arrivati ad un punto dove la ricerca di qualcosa di originale superi la qualità, limitando, a mio avviso, la varietà di pubblico ad una elité di appassionati del settore. Tu cosa ne pensi?
Stefano: Concordo. Per quanto non mi ritenga affatto un purista, né un amante del traditional, (tutt’altro… il mio sogno sarebbe suonare il didjeridoo per gli Shpongle!), credo che la ricerca dell’insolito e dell’originale si sia spinta troppo oltre, e che lo strumento sia stato un po’ snaturato. Diciamo insomma che mi piace che, anche in un contesto fortemente elettronico, il suono dello strumento sia riconoscibile.
Vincenzo: Ti ringrazio per la disponibilità e spero di sentirti-vederti dal vivo per parlare di nuovo con te anche dei tuoi strumenti.
Ciao a presto.
Stefano: Ciao.
Vincenzo Sturla