"La Generazione Rubata"

"Rabbit-Proof fence"
Regia di Phillip Noyce
E’ un film di sguardi. Certo, la parola entra, per forza di cose, nel contesto narrativo. Sia essa nel forbito inglese del solerte funzionario britannico che da Perth dirige e coordina le operazioni di assegnazione dei bambini e bambine prelevati dalle proprie famiglie, sia essa nell’inglese un pochino meno forbito degli australiani del posto, e in quello ancora meno accademico degli aborigeni. Per finire con le parole del ‘Popolo della Terra’, che vorremmo quasi solo intuire, invece che leggere tradotte nei sottotitoli.
Ma le parole sono di contorno, come dire, di supporto. Sono ordini, esortazioni, disposizioni, passagi burocratici, richieste di aiuto: ma senza gli sguardi che attraversano tutto il film, sarebbero quasi niente. La storia è nota. La conosciamo. Per svariati decenni, le autorità australiane, sotto l’impulso e la direzione dell’amministrazione inglese, misero in atto uno spaventoso lavoro di separazione, di allontanamento. Migliaia di bambini e bambine, figli bastardi di madri aborigene e di padri bianchi, furono puramente e semplicemente portati via dal proprio nucleo familiare, dalla propria terra; fratelli e sorelle che quasi mai, poi, ebbero l’occasione di rivedersi. Intere generazioni che furono sradicate e mandate a fare un’altra - ovviamente ‘migliore - vita presso famiglie di onesti e laboriosi bianchi.
La vicenda, vera, di due sorelle e di una cuginetta (la quale ultima, ripresa e mai più ritrovata, finì da qualche parte, in qualche famiglia di una mai conosciuta regione australiana) le quali, prelevate dall’autorità e assegnate a famiglie diverse, riescono a sottrarsi all’operazione, a fuggire e a fare ritorno ai propri luoghi di origine, è messa come punto centrale di tutto l’insieme narrativo, anche se poi Noyce riesce a spostare l’obbiettivo, a non cadere nella facilissima trappola del pietismo, pur riuscendo (e, in qualche modo, dovendo, nell’inevitabile finale) a mantenere ‘caldo’, pulsante l’elemento sentimentale, vorremmo dire personale di tutto, di fronte a quanto viene raccontato, e che per anni ed anni è stato nascosto, occultato, mai raccontato agli australiani stessi. L’obbiettivo che Noyce sposta, va a finire dove deve finire, trattandosi di un film australiano, ambientato in Australia: sugli sguardi. Troppo facile, infatti, occuparsi del paesaggio e riprenderlo pari pari: per quello basta anche una cinepresa amatoriale.
Siamo intorno agli anni ’30 del XX° Secolo: l’Australia è ancora giovane ma, alla fine, qualcuno comincia a pensare che gli aborigeni non siano tutti degli animali. Per la verità, qualcuno aveva già fatto questa considerazione: i bianchi che violentavano le donne aborigene (dalle quali poi nascevano i figli bastardi da tenere separati, per il bene stesso della comunità). A meno che qualche storico britannico di allora non accettasse l’idea che i figli di Albione si accoppiassero, a forza, con femmine di animali. Con le perplessità che nutriamo nei confronti di costoro - gli storici - non arriviamo tuttavia a pensare a tanto.
E dunque: gli aborigeni sono essere umani. Qualcuno giunge a questa conclusione. Spiace dirlo, ma è così. Bisogna quindi occuparsi di questi esseri umani. La figura sottile, apparente, verrebbe da dire quasi onesta, del funzionario addetto all’individuazione, al prelievo dei ragazzini e alla loro assegnazione alle famiglie che ne hanno fatta richiesta, magnificamente e con inedita misura interpretato da Kenneth Branagh, è emblematica, decisiva. Noyce rifugge dall’idea di rappresentare un uomo gretto, lugubre, quello che nella sceneggiata napoletana viene chiamato ‘o malamente’. Troppo facile. E decisamente spaiato, storicamente fuori fuoco, come tutte le rappresentazioni bagnate di ideologia. Si tratta di un uomo, per così dire, normale. La normalità dovrebbe sempre metterci sull’avviso. Sapendo da quanta normalità, di trasudavano omuncoli e mandanti, fosse caratterizzato il nazismo. Un uomo perfino buono, di belle maniere. Con una profonda convinzione, radicata nel suo animo: egli sta facendo del bene. Egli è il coordinatore di un piano teso a fare del bene: alle famiglie aborigene, che in questo modo si vedono liberate dalla piaga dei figli mezzosangue, alle famiglie desiderose di fare del bene a queste povere bestioline bisognose di civiltà, e ai bambini stessi, ai quali - fortunati loro! - la provvidenza ha dato la possibilità di fare parte del consorzio civile, dei migliori, di evolversi da una situazione di arretratezza.
Questa convinzione, nel suo sguardo, appunto, più che nelle parole, vacilla quando, verso la fine della vicenda narrata, gli viene comunicato che questa bambine proprio non si trovano. “Se solo sapessero che stiamo facendo tutto questo per il loro bene”, le parole gli escono dalla bocca quasi in un filo. Incredulo, di fronte a tanta incoscienza. Di fronte al fatto che costoro non si rendano conto che quello che lui fa, è fatto per il loro bene. E’ il suo sguardo a parlare più delle parole. Lo sguardo di un uomo sì cortese, ma ottuso, incapace di vedere al di là degli incartamenti burocratici che coprono la sua scrivania. Un uomo (è lui quello che non capisce!) che non si rende conto di quello che sta facendo, che non ha la consapevolezza di essere uno di coloro i quali stanno mettendo in atto un’operazione socialmente, umanamente e politicamente bieca e idiota, oltre che crudele. Per certi aspetti, un uomo anche peggiore dei cattivi classici che popolano schermi e cronache di tutti i giorni. Loro, almeno, la coscienza di esserlo, ce l’hanno. Lui, cosa dicevamo della normalità?, è della stessa pasta di quegli omarini che vivevano con le loro tranquille famiglie nei dintorni di Auschwitz o di Bergen Belsen, e in tutta la loro ipocrita sincerità, onestamente affermavano di non avere avuto la benché minima idea di cosa fosse quella pioggia di cenere che proveniva dal campo attiguo.
Un altro sguardo gli fa quasi da contrappeso. I personaggi, di contorno, vengono collocati nella narrazione (ci piace pensare che Noyce l’abbia fatto apposta) per giungere a lui, a quello sguardo. Dopo che le bambine sono fuggite dall’orrendo campo di raccolta, gestito da orrende suore britanniche, dove ai bambini è vietato parlare in altra lingua che non sia l’inglese, un uomo viene mandato sulle loro tracce: letteralmente, sulle loro tracce, perché si tratta di un aborigeno che vive e lavora vicino al campo. Il suo compito è quello di andare a riacciuffare i malandrini che fuggono dal loro splendido quanto immeritato destino di civilizzazione. Ci riesce sempre. Stavolta, no. Non ci riesce. O, meglio, ad un certo punto, decide di non riuscirci. La maggiore di queste bambine gode fama, nella sua famiglia di origine, di cacciatrice. Lei guida le altre, confonde le tracce, cambia i percorsi, mischia le impronte. Da cacciatrice, sa bene di essere cacciata. Quest’uomo mandato a cercarle ingaggia con esse, ma sarebbe meglio dire con la maggiore di esse, la cacciatrice, una specie di gara, che diventa il nerbo di tutta la storia, non solo e non tanto per come si svolge, ma per come finisce. Lei lo inganna, lo mette in difficoltà. Finisce che gli uomini che cercano queste bambine, ancora una volta, tornano indietro, con le pive nel sacco. Proprio non riescono a trovarle. Quasi. Perché, nell’ultima inquadratura che di lui abbiamo, mentre si allontana, quell’uomo si ferma e si gira. Le bambine sono vicine, nascoste nel bush. Le sente. Sa che sono lì. Ma capisce che hanno vinto. Capisce che è giusto lasciarle andare. E se ne va con gli altri, torna al suo triste lavoro. Senza una lingua, senza una voce. Basta il suo sguardo, accompagnato da un sorriso quasi impercettibile che vince, per un attimo, i rilievi montuosi del suo volto di uomo antico.
Quello sguardo, quei rilievi, apparengono a David Guilpilil, icona del cinema aborigeno australiano, proiettato nella notorietà dalla sua memorabile interpretazione ne “L’ultima Onda” di Peter Weir. Uomo del bush, nel bush vive tutt’ora, da qualche parte del deserto australiano, con un numero non precisato di figli. E’ lui, in realtà, il personaggio centrale del film, assieme all’aquila, animale guida della ragazzina che letteralmente di peso riporta la sorellina con sè verso la madre e la nonna. L’uomo il cui compito è riprendere, riportare verso il campo, allontanare dalla via di casa, e lo spirito guida che quella strada, invece, indica chiaramente, specie nei momenti di difficoltà, di lontananza, di scoramento, sono le figure chiave di tutta la narrazione. E non potrebbe essere diversamente, essendo gli unici personaggi, oltre alle ragazzine, ad essere genuinamente ed esclusivamente australiani.
Nel finale, conosceremo quello che dovremmo già sapere: riprese da una videocamera stile filmino familiare, due donne quasi ottantenni, età inimmaginabile per gli aborigeni, camminano nel bush. Sono le due sorelle, che per tutta la vita sono rimaste nella loro terra. Qualche volta, le cose vanno anche a finire bene.
Sito Ufficiale: www.buenavista.it/xgenerazione.htm
Scheda Film: www.primissima.it/schede/
Incontro con Phillip Noyce - febbraio 2002

di Cesare Stradaioli
Phillip Noyce si esprime non senza una certa difficoltà. Come in molti uomini di cinema, come molti artisti che usano l’immagine per concretare i loro pensieri, la parola non è esattamente fluente. Come se la ritenessero insufficiente, inadeguata. Come se dicessero: ma non l’hai appena visto sullo schermo? Non mi sono spiegato abbastanza? Quindi, non parla neanche tanto volentieri del suo film. Appena la proiezione finisce e si accendono le luci in sala, viene presentato e cominciano le domande. Qualcuno la butta subito sul ridere. Gli chiedono se, l’altra sera a Sydney, per la prima nazionale, fossero stati invitati il primo ministro John Howard e il ministro per l’immigrazione Phillip Ruddock. Accenna ad un sorriso. Non credo che sarebbero venuti, risponde. La sala ride e il ghiaccio è sciolto.
Racconta di come sia stato colpito da David Guilpilil. Durante la preparazione della scena nella quale le ragazzine attraversano un fondale acciottolato di un ruscello, e poi tornano sulle loro tracce per confonderle all’inseguitore, lo stesso, vale dire Guilpilil, ha avuto da dire col regista: secondo lui si vedeva benissimo (!) che alcuni sassi erano stati spostati, e che bisognava camuffare meglio il passaggio delle fuggitive, per renderlo credibile. Molti spunti sono stati ideati dallo steso attore, in corso di registrazione: non male, per un regista australiano che esordì nel 1988 con la giovanissima Nicole Kidman in “Ore 10: calma piatta”, da un copione di Orsos Welles, e che poi è finito negli USA a dirigere gente come Harrison Ford e Denzel Washington, in produzioni nelle quali ogni minimo dettaglio è curato nel particolare, e nulla è concesso all’mprovvisazione.
Secondo lui è per questo che Guilpilil non si muove da dov’è, né fisicamente né come artista. La sua spontaneità, la sua grandissima forza espressiva sono sicuramente connesse al fatto che lui nel bush ci è rimasto, in una vicenda umana che non è andata esente da spiacevoli incontri con le forze dell’ordine. Fosse un attore americano, a causa dei suoi guai sarebbe su tutti i rotocalchi; siccome è un attore aborigeno, che nemmeno vive a Sydney, allora non se ne cura nessuno. A noi, ma neanche a Noyce, non dispiace per nulla.
Più circospetto il regista sulle domande relative alla ‘stolen generation’. Dice di non saperne molto neppure lui, se non per cose sentite dire. Come tantissimi australiani. In effetti, si tratta di una ferita sociale ben lungi dall’essere rimarginata. E’ che loro non parlano, dice Noyce, difficilmente si raccontano. Anche fra loro stessi. Le storie personali sulla generazione sottratta circolano poco anche fra le stesse comunità aborigene. E’ il loro modo di fare. Ora, dice, ne so un pochino di più. Ma non quanto, forse, dovrei. Il presentatore della serata non fa neppure a tempo a indicare un altro che chiede la parola, che nelle file superiori della sala si alza una signora. Potrà avere cinquanta anni. E’ chiaramente mezzosangue. Dice di avere avuto una nonna aborigena, morta vecchissima non da molto. Una decina di anni fa, mentre si trovavano assieme lei, la madre e la nonna, costei di punto in bianco, senza nessuna relazione con le cose che si stavano dicendo fino ad un minuto prima, racconta alla sua nipote, e anche alla propria figlia, che due delle sue figlie, sorelle della madre della signora che stava parlando al cinema, le furono portate via dalla polizia. Erano figlie di due uomini bianchi. Era il 1935. Non le ha mai più riviste. Questa signora ha scoperto così, in un attimo, di avere avuto due zie. E la sua madre, di non essere figlia unica. Chissà dove sono. Chissà se sono ancora vive. Per più di mezzo secolo, quella vecchia aborigena non aveva detto a nessuno di una simile cose, neppure alla propria figlia. Vivendo normalmente. Accade anche questo.
Noyce si dilunga un po’ parlando di attori. Dice di come sia stato un piacere lavorare con Kenneth Branagh, perfettamente calato nella parte dell’ordinary man britannico. Dice anche di essere stato affascinato dal personaggio, storicamente esistito. In fondo, sorride, Guilpilil ha fatto sè stesso: Branagh doveva fare qualcun altro, riuscendoci pienamente. La quieta figura di un esecutore di ordini superiori. Quali che potessero essere. E talmente convinto della bontà, della giustezza delle proprie azioni, da non capacitarsi di come questi selvaggi non capiscano che il tutto è fatto prima di tutto nel loro interesse. Uno che cerca di porre rimedio a delle situazioni inevitabili, figli bastardi in una comunità. Come se le donne aborigene fossero violentate da extraterrestri e non da coloni bianchi.
Ma queste due donne non le hanno proprio raccontato niente, non hanno fatto commenti al film, gli chiedono. Non l’hanno visto per intero, risponde, ancora non ho avuto modo di incontrarle dopo il montaggio definitivo. Però, un commento una delle due l’ha fatto. A proposito di una sequenza particolarmente toccante, nella quale la più grande, la cacciatrice, sull’orlo dello sfinimento anche lei, raccoglie da terra la sorellina più piccola e la prende in braccio, mentre segue le evoluzioni dell’aquila, animale guida. La più giovane, nel vedere la scena, è sbottata: non è vero niente che mi ha preso in braccio. Ho sempre camminato con le mie gambe!
Forse si può anche ridere di frasi come queste. Dopo tutto, se hanno la forza di scherzarci loro, dovremmo averla anche noi. Il fatto è che a noi non dovrebbe essere permesso di ridere di queste cose. Di tanto in tanto, anche il cinema può insegnare qualcosa. A stare zitti, ad esempio, e ad ascoltare. Non è mai troppo tardi per rimediare.
Una ferita mai rimarginata

di Annarita Cola
Troppo neri per vivere con i bianchi…
troppo bianchi per essere allevati da una mamma nera.
Unica alternativa, a parte i pochi “fortunati” adottati come inservienti da famiglie bianche “perbene”, lo squallore e la violenza di oscuri e lontani orfanotrofi.
°°°
Fu questo il destino delle centinaia e centinaia di bambini nati da donne aborigene la cui grande colpa fu quella di giacere, quasi mai per amore, con uomini bianchi che, sperduti in una terra ostile e selvaggia, cercavano qualche emozione o anche un po’ di calore per alleviare le loro dure e spesso sofferte vite di pionieri in frontiere sempre più nuove e sempre più lontane.
Un destino segnato da una legge dello Stato emanata intorno al 1920 ed abolita definitivamente soltanto nella prima metà degli anni 70.
Tutti i bambini che avevano anche una sola goccia di sangue bianco nelle vene, ma a volte anche bambini completamente aborigeni, furono sistematicamente strappati alle loro famiglie d’origine per ricevere una “educazione” che li allontanasse il più possibile dalle loro tradizioni tribali. L’educazione “britannica”, della quale i bianchi australiani andavano tanto orgogliosi, era impartita con la violenza, con le privazioni, con la sofferenza in lontanissimi istituti gestiti da religiosi.
Tra le pareti di quegli istituti, le violenze fisiche e psicologiche erano all’ordine del giorno e nessuno ne parlava, nessuno aveva il coraggio di denunciare. Tutto si consumava nel più assoluto silenzio del mondo.
Secondo i disegni del governo australiano, tale politica avrebbe, nel tempo, garantito la cancellazione totale della cultura aborigena mediante l’assimilazione forzata a quella dei bianchi. Una volta usciti da quegli istituti, ad attenderli c’era solo la fatica del lavoro duro alle dipendenze dei ricchi possidenti e una vita priva di prospettive. Queste storie sono emerse soltanto negli anni recentissimi grazie anche alle denunce di chi subì tali ingiustizie. E grazie, soprattutto, a chi ha scritto libri in merito a tale argomento come Sally Morgan con “My Place” (titolo italiano “La mia Australia”) e come, soprattutto, Doris Pilkington con il suo “Follow the rabbit-proof fence” dal quale è stato tratto il film “La Generazione Rubata” che, dal 22 novembre 2002, sarà proiettato nelle sale cinematografiche di tutta Italia.
Questo film darà sicuramente - come ci auguriamo - un contributo importantissimo per far conoscere alla gente quello che per anni è stato taciuto e che tanto dolore ha arrecato a gente che, ancora oggi, ne porta nell’anima e nella psiche i segni purtroppo mai rimarginati.
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