The Empire writes back
Introduzione alla letteratura postcoloniale Nel 1930 l'84,5% della superficie emersa del globo era costituita da colonie o ex colonie. Il colonialismo può essere definito come la conquista e il controllo delle terre e dei beni di altri popoli; esso ha rappresentato una caratteristica ricorrente e piuttosto diffusa in tutta la storia dell'uomo, ma il moderno colonialismo europeo ha modificato in modo irreversibile la vita del globo terrestre. L'Europa occidentale derivò agi e ricchezze dalle terre conquistate, ne ristrutturò le economie, legandole in una complessa relazione di subalternità con la propria; creò un flusso di risorse umane e naturali fra i paesi colonizzati e quelli colonizzatori: le materie prime venivano importate per realizzare prodotti nelle metropoli, ma nello stesso tempo le colonie fornivano anche mercati subordinati per i prodotti europei. In qualunque direzione viaggiassero gli esseri umani e i materiali, i profitti tornavano sempre nella "madrepatria", producendo lo squilibrio economico necessario per la crescita del capitalismo e dell'industria europei. Oggi un paese può essere al tempo stesso postcoloniale, in quanto formalmente indipendente, e neocoloniale, perché rimasto economicamente e culturalmente dipendente. Attraverso le imprese coloniali la letteratura europea si è proiettata sui nuovi mondi facendosi canone di tutte le letterature e divenendo la "letteratura mondiale"; nonostante ciò è proprio la letteratura oggi a permettere, attraverso un'intensa opera di traduzione, la comunicazione tra i vari mondi. Essa trasmette sogni, valori, tradizioni, sofferenze e utopie, invita i diversi popoli a riflettere e ad interrogarsi, crea una rete planetaria di corrispondenze, opponendosi al "pensiero unico" e divenendo una forza meticcia e incontrollabile. Le letterature postcoloniali interagiscono con quelle metropolitane disorientandole, creando nodi interletterari, zone di influenza e di scambio reciproco. La traduzione letteraria diviene così un vero e proprio processo dinamico; prendendo spunto dal testo originale, fonda in seguito la propria alterità, producendo un effetto straordinario: il rinnovamento e la rinascita dell'opera in un terreno diverso da quello di origine. La conoscenza del popolo aborigeno deriva spesso dalle immagini create dagli Australiani non aborigeni; essa si è sviluppata nel corso di decenni di colonizzazione e del conseguente sfruttamento di un territorio vasto e, per molti versi, incredibilmente diverso da quello europeo. Si può facilmente comprendere come sia stato costrittivo e repressivo l'insediamento dei coloni nelle nuove terre; esso rinnegò sistematicamente i principi fondamentali della civilizzazione: 1) la necessità per il popolo aborigeno di definire la propria identità, correlandosi col resto della storia del mondo, atto fondamentale per la sua stessa esistenza; 2) la possibilità di utilizzare le proprie leggi, la propria lingua, la terra su cui vive, privandolo così dei diritti umani basilari. Il 1788 per i Britannici fu l'anno della colonizzazione delle nuove terre e ancora oggi viene festeggiato come momento altamente patriottico; per gli Aborigeni esso fu l'anno dell'invasione che segnò la fine dell'età dell'oro e l'inizio della decadenza. La terra australiana venne dichiarata deserta e inabitata, più tardi verrà rappresentata al mondo intero come Terra nullius, quasi a voler giustificare l'estinzione di una popolazione primitiva destinata inevitabilmente a soccombere. I documenti ufficiali, i diari, gli scritti dei primi arrivi, i testi scolastici, le rappresentazioni pittoriche agli inizi del'900 mostrano come il pensiero europeo credesse che ogni società si sviluppasse verso un unico modello di civilizzazione, confondendo evoluzione biologica e differenze culturali. I Britannici videro negli indigeni australiani i soggetti adatti ad essere colonizzati e civilizzati; sottolinearono solo alcuni aspetti della civiltà incontrata, come le lotte tribali e i comportamenti selvaggi, trascurando completamente i momenti fondamentali della fiorente cultura aborigena. L'arrivo dei missionari cattolici nel 1820 fu ancora più distruttivo: essi non erano interessati al controllo della terra, ma si adoperarono con ogni mezzo per distruggere il mondo spirituale di questo popolo, il vero cuore della loro società, sconvolgendo ogni credenza o cerimonia religiosa delle tribù in nome del Dio cristiano e considerando ogni aborigeno come un bambino bisognoso di essere salvato. Nella Costituzione Australiana redatta nel 1900, ci fu un unico riferimento agli Aborigeni: la loro esclusione dalla vita sociale ! Il governo britannico negò loro ogni cittadinanza, rendendoli "invisibili" al resto del mondo. La conseguenza di tutto ciò fu una conoscenza superficiale e generalizzata delle abitudini e della cultura di un'intera civiltà, che restava misconosciuta alla maggioranza dei bianchi e del mondo. Il sistema educativo vittoriano contribuì a sviluppare la teoria secondo cui i bianchi, poiché appartenenti ad una civiltà superiore, erano in diritto di governare su questa terra, diffondendo in tal modo nei giovani attitudini razziste. "Studi Aborigeni" vennero introdotti nelle università australiane solo nel 1968, al fine di approfondire la conoscenza di questo popolo in relazione alla sua organizzazione sociale, alle sue attività, alle sue credenze e ai suoi valori, creando per i giovani una concreta opportunità di distruggere stereotipi e false rappresentazioni. Mudrooroo Nyoongah, autore aborigeno e dirigente della Murdoch University, nelle sue opere sottolinea fortemente l'importanza di utilizzare voci aborigene per ottenere una nuova prospettiva storica sull'Australia. Nel testo White forms, aboriginal content lo scrittore parla dell'oralità della cultura prima dell'arrivo degli Europei, un'arte parlata e memorizzata, atta a tramandare credenze, tradizioni ed eventi storici. La letteratura aborigena è la letteratura del "quarto mondo", di una minoranza indigena oppressa da una maggioranza che governa; per Mudrooroo la storia australiana deve fare i conti con questa realtà e compararsi con realtà simili nel mondo, conservando i linguaggi e tramandandoli ai figli, solo così la continuità tra passato e presente potrà essere mantenuta, nonostante l'intrusione europea. Come il popolo aborigeno, più di tre quarti della popolazione mondiale ha subito il dramma del colonialismo; la letteratura, come la pittura, la scultura e le altre arti offrono un ampio quadro di tale esperienza. Oggi con il termine Postcoloniali si vogliono raggruppare tutte quelle popolazioni che hanno subito il flagello dell'imperialismo, dal momento della colonizzazione ai giorni nostri. Il colonialismo può essere definito come la conquista e il controllo delle terre e dei beni di altri popoli; una caratteristica ricorrente e piuttosto diffusa in tutta la storia dell'uomo, ma il recente colonialismo europeo ha alterato l'intero globo con pratiche che non hanno precedenti nella storia. Per la critica marxista i colonialismi precedenti erano precapitalisti, mentre quello europeo moderno tenne il passo con il capitalismo occidentale, sottraendo ricchezze alle terre occupate, ristrutturandone le economie, attirandole in una complessa relazione con la propria. I paesi colonizzati, indipendenti sulla carta, furono soggetti ad una sorta di dominio derivante dalla loro subordinazione al mercato europeo e ai sistemi culturali occidentali. Negli anni '30 del ventesimo secolo il dominio coloniale influenzava l'84% del globo; il termine postcoloniale indica la resistenza e la lotta dei popoli a tutta la sindrome coloniale e neocoloniale; è un passaggio obbligato per i paesi che il colonialismo lo hanno subito, ma anche un momento essenziale attraverso il quale l'Occidente può decolonizzare per decolonizzarsi, lottando contro il cuore di tenebra che affligge la sua storia. Frantz Fanon nel libro Pelle nera Maschere bianche, spingendo la sua analisi nel mondo della psiche e della soggettività, considera popolazioni colonizzate non solo quelle alle quali l'Europa ha sottratto la forza lavoro, ma anche quelle nelle cui anime è stato creato un complesso d'inferiorità attraverso la distruzione sistematica della cultura originale locale. L'impatto del colonialismo sulla cultura risulta intimamente legato ai processi economici, ma questa relazione non può essere compresa, a meno che i processi culturali non siano teorizzati interamente e nel profondo, come quelli economici. Nei Quaderni del carcere Gramsci mette in discussione la preminenza dell'economia sull'ideologia; non ignora il ruolo delle trasformazioni economiche, ma non crede che esse da sole possano provocare eventi storici, piuttosto ritiene che esse creino le condizioni favorevoli allo sviluppo di alcuni tipi di ideologie. Gramsci elabora il concetto di egemonia: potere raggiunto attraverso la combinazione di coercizione e consenso; le classi dominanti raggiungono il potere non solo con la forza, ma soprattutto creando soggetti che si sottomettono volontariamente per essere governati. Althusser sostiene che nelle moderne società capitalistiche partecipano alla riproduzione del sistema dominante sia apparati repressivi che ideologici, strumenti atti a creare soggetti che volontariamente accettano i valori del sistema. Secondo Foucault tutte le idee, tutti i campi della conoscenza, sono strutturati e determinati dalle leggi di un certo codice della conoscenza: nessun soggetto è in realtà libero. Tutte le idee vengono organizzate attraverso ciò che Foucault chiama Discorso, l'ordine del discorso è l'intero terreno concettuale su cui la conoscenza si forma e si produce. Gli esseri umani quindi interiorizzano i sistemi repressivi e li riproducono conformandosi a certe idee su che cosa sia normale e cosa sia deviante. La critica poststrutturalista agli impianti accentratori della cultura occidentale è diventata fondamentale per lo studio del colonialismo: la prospettiva foucaultiana che la conoscenza non sia innocente, ma profondamente connessa con il potere informa l'opera di Edward Said Orientalismo, che mostra in quale misura la conoscenza sull'Oriente, prodotta e circolante in Europa, sia un sostegno al potere coloniale. Said sottolinea come la rappresentazione occidentale dell'Oriente abbia contribuito alla creazione di una dicotomia fondamentale per la nascita di una cultura europea, capace di mantenere ed estendere l'egemonia su altri territori. Il progetto di Said è di dimostrare come "conoscere" i non Europei sia una strategia facente parte del processo attraverso cui mantenere il dominio su di loro; egli ritiene che lo studio sull'Oriente derivi in realtà da una visione politica che promuove un'opposizione binaria tra il familiare e l'altro. Nessuna branca del sapere è rimasta incontaminata dal discorso coloniale e le discussioni su di esso producono differenze inconciliabili fra sé e l'altro, fra aborigeno e australiano bianco, fra occidentale e non occidentale. Il linguaggio e la letteratura sono entrambi coinvolti nella costruzione di binarismi: i testi letterari sono fondamentali per la formazione dei discorsi coloniali, proprio perché influenzano l'immaginazione e i singoli individui. Il saggio di G. Lamming del 1960, The Occasion for Speaking è stato uno dei primi tentativi per capire quanto possa essere importante la letteratura nello svilire e controllare i soggetti coloniali; l'impero britannico sapeva che gli studi letterari avrebbero giocato un ruolo chiave nel tentativo di imporre valori occidentali agli indigeni. L'educazione importata nelle colonie si è imposta come superiore, il sapere occidentale come standard e universale. La lingua è stata uno degli strumenti fondamentali delle missioni coloniali; oggi per tutto il mondo postcoloniale è rappresentativa La tempesta di Shakespeare, in questa opera si assiste al dramma di Prospero e Calibano, l'indigeno cannibale che viene educato ed istruito. Ma Calibano, appresa la nuova lingua, risponde e anche tutto l'impero coloniale risponde, utilizzando la lingua dei colonizzatori, dimostrando come la missione colonizzatrice occidentale sia stata solo una maschera dello sfruttamento economico. Il testo di G. Visvanathan: Mask of conquest suggerisce che lo studio della letteratura inglese è divenuto una maschera dello sfruttamento economico e politico delle colonie: il libro inglese simboleggia la stessa autorità inglese. Il controllo da parte del centro dell'impero sul linguaggio viene portato avanti attraverso la distruzione del linguaggio dei nativi, imponendo il linguaggio imperiale come standard sulle altre varietà di linguaggi impuri. Il linguaggio rimane quindi il più potente strumento di controllo culturale: esso crea i termini che costituiscono la realtà, i nomi con cui il mondo viene conosciuto; porre il nome al mondo significa conoscerlo e quindi controllarlo. Gli imperi coloniali hanno esportato le loro lingue, divenute così idiomi dell'amministrazione, della politica e delle istituzioni culturali; il dibattito sull'utilizzo della lingua è uno dei più caldi nel mondo postcoloniale: il nigeriano Achebe, data la natura multilingue della maggior parte degli stati africani, auspica, per la sua ovvia presenza, una lingua letteraria inglese. Il Keniota Ngugi Waga Thiong'o vede invece la lingua come espressione di una determinata cultura, quindi usare la lingua dei dominatori significa farsi loro complici. Oggi nel mondo postcoloniale distinguiamo tre gruppi linguistici: Monoglossici: cioè le settler colonies, dove gli indigeni vennero totalmente sopraffatti: USA, Nuova Zelanda, Australia, America Latina. Diglossici: società bilingue, ove si è conservata la lingua tradizionale cui si è affiancata quella dei coloni: è il caso del Maghreb (arabo/francese). Poliglossici: società in cui convivono lingue diverse che incrociandosi si modificano vicendevolmente. Un caso esemplare sono i Caraibi che costituiscono un sistema interlinguistico detto creole continuum, in cui convivono una grande varietà di lingue coloniali, lingue precolombiane, lingue africane (tratta degli schiavi), lingue asiatiche dovute alle ultime ondate migratorie. Secondo lo studioso Bill Ashcroft esiste un profondo processo di adattamento linguistico che rompe il concetto statico di linguaggio standard e tende a forme di linguaggio veramente dinamiche. La funzione cruciale del linguaggio come mezzo di potere ha spinto gli scrittori postcoloniali ad appropriarsi del linguaggio del centro, adattandolo ai luoghi colonizzati, alle periferie. Sia le comunità creole dei Caraibi che i Rastafariani in Jamaica, inseriscono deliberatamente nella lingua inglese una miriade di dialetti e modi di dire; alterando il linguaggio, si alterano le strutture egemoniche dell'impero. L'introduzione di varianti nel linguaggio è spesso metaforica, rappresenta l'appartenenza etnica dello scrittore, la verità della sua cultura di origine. Le strategie di differenziazione del linguaggio standard come: allusioni, dettagli etnografici, parole non tradotte costringono il lettore ad avere a che fare con gli orizzonti culturali dello scrittore, con le differenze. Non solo appropriandosi e variando il linguaggio del centro le opere postcoloniali segnano la loro differenza, ma soprattutto scrivendo sulle condizioni di alterità, rendendo finalmente le periferie fuochi di esperienza. Macondo, paese immaginario del romanzo Cien anos de soledad di Gabriel Garcia Marquez, diviene cifra totale della realtà latino-americana permettendo a tutto il mondo di avvicinarsi alle passioni e alle lotte di quelle popolazioni; chiunque abbia letto il romanzo sente di essere in qualche modo nato a Macondo. Sicuramente l'introduzione della scrittura presso popolazioni votate all'oralità le ha spinte verso un nuovo tipo di coscienza che potremo definire storica; nella scrittura il passato diventa realtà oggettiva e storia. Possiamo così intendere l'importanza per il popolo australiano di riscrivere la storia e di rispondere nelle forme del colonizzatore, nella convinzione che le proprie forme non siano state ascoltate. Negli ultimi anni assistiamo alla presa di coscienza delle popolazioni che hanno subito il flagello coloniale rispetto alla loro condizione; ad essa segue una fiorente letteratura che di queste sofferenze è testimone e risposta. L'impero risponde, recita la frase di Salman Rushdie che è diventata il titolo del testo che per primo ha voluto sistematizzare teorie e pratiche dei paesi postcoloniali. Gli stereotipi razziali risalgono ai Greci e ai Romani, essi hanno fornito modelli duraturi per tutte le immagini successive degli stranieri, modelli rielaborati nei primi anni della modernità, quando la cristianità è diventata il prisma attraverso il quale tutta la conoscenza del mondo si è riflessa. Con l'espansione coloniale e la nascita delle nazioni queste idee più antiche sono state rielaborate, diffuse e rafforzate dal discorso scientifico. Le discussioni scientifiche sulla razza, invece di annullare gli stereotipi negativi sull'altro, li hanno sviluppati e amplificati: la scienza ha trasformato barbarie e civiltà in condizioni fisse e permanenti. Frantz Fanon in Pelle nera, maschera bianca conclude che la modernizzazione induce gli indigeni alla pazzia: per il soggetto bianco il soggetto nero rappresenta tutto ciò che è fuori da sé; al contrario per il soggetto nero, il soggetto bianco è tutto ciò che di desiderabile possa esistere; il soggetto nero conferma il soggetto bianco, mentre quest'ultimo svuota il soggetto nero, che non riesce a identificarsi con ciò che è continuamente negato dalla struttura razzista e coloniale. Lo psichiatra martinicano indica inoltre una convergenza fra la posizione delle donne e quella dei soggetti colonizzati: nella società patriarcale, le donne sono soggetti divisi che guardano se stesse essere guardate dagli uomini, si trasformano in oggetti perché la stessa femminilità è definita dall'essere guardate dagli uomini. La differenza del soggetto postcoloniale è sentita immediatamente nella lettura delle caratteristiche superficiali come corpo e voce, spesso viene letta dallo stesso come inferiorità genetica;questa è l'inevitabile realtà di essere neri: ogni nero sente sulla propria pelle i segni dell'oppressione e della denigrazione. Ma il corpo denigrato come inferiore è sovversivamente divenuto portavoce degli aspetti della cultura locale, i quali sono divenuti antagonisti degli standard occidentali. In questa società, che si ritiene la più civile, le culture orali e performative, come quella aborigena, sono ritenute una condizione culturale primitiva; l'oralità e la performance del corpo sono oggi alcuni dei modi delle società postcoloniali per rimanere in saldi legami con il passato precoloniale, un mondo da recuperare per sopravvivere. Il senegalese Leopold Senghor attraverso il concetto di Negritude, rifacendosi al martinicano Aimé Césaire, richiama a diverse categorie spazio temporali della razza nera, nell'affermazione di tratti propri della negrizia come patrimonio da difendere e da contrapporre alla realtà dei bianchi. Questo concetto ha costituito, inoltre, un attacco diretto al canone estetico europeo, contrapponendosi ad esso come espressione di tutti i neri del mondo. In realtà l'opera di Senghor sembra riprodurre le dicotomie manichee occidentali e rafforza il pregiudizio, invece di eliminarlo. La critica più efficace alla teoria di Senghor arriva dal premio Nobel per la letteratura, il nigeriano Wole Soiynka il quale sostiene che "le tigri per essere tali non hanno bisogno di affermare la loro tigritudine". La transizione nel mondo postcoloniale non è stata un processo a senso unico di sottomissione e oppressione, ma soprattutto un processo di scambi tra la cultura degli oppressi e la cultura imperiale. Oggi il mondo postcoloniale deve fare i conti con l'ibridismo che si colloca tra le sue principali caratteristiche; una delle contraddizioni maggiori del colonialismo è che esso ha bisogno di civilizzare l'altro, ma anche di fissarlo in una alterità perpetua; gli imperi coloniali temono, ma allo stesso tempo generano, ibridità biologiche e culturali. Homi Bhabha in Signs Taken for Wonder torna a Fanon per suggerire che l'ibridismo e la marginalità sono attributi necessari alla condizione coloniale; Bhabha, parlando dell'ibridismo della Bibbia in India, dimostra come la presenza coloniale sia sempre ambivalente e come essa produca il fallimento del discorso coloniale ed un momento di resistenza. Nonostante il colonialismo europeo, le realtà culturali australiane e degli altri paesi postcoloniali continuano a differire; il lavaggio delle differenze culturali è prerogativa del criticismo europeo; il mito dell'universalità è in realtà una delle prime strategie del controllo imperiale, nel binomio assoluto: europeo-universale. L'aborigeno è una creazione tutta imperialista, esso è altro in senso denigratorio e quindi non uguale; si tratta di una appropriazione della terra e di una indigeneizzazione dell'altro; l'indigeno diventa altro-negativo del buono-bianco. Gli aborigeni non occupano una vera posizione nel mondo, sono solo una delle popolazioni invase dall'Europa; la storia occidentale ha relegato questo popolo nel limbo della periferia, nell'invenzione assurda di un primo e un quarto mondo, nel raccontare una Storia ritenuta soggettiva in massimo grado. Dal 1980 sono emersi numerosi scrittori aborigeni che hanno contribuito a ricostruire la storia e a combattere le false immagini esistenti; narratrici come Roberta Sykes, Sally Morgan ed Eva Johnson hanno lottato per il cambiamento, raccontando al mondo le loro storie ed i loro sentimenti. Luca Moretti morettiluca77@hotmail.com |