IL RAPPORTO FORMATORE DI CORPO E PAESAGGIO
NELLA CULTURA ABORIGENA AUSTRALIANA
IN RIFERIMENTO ALLA
PRATICA RITUALE MUSICALE
di Alberto Furlan
Capitolo Secondo
La storia dei rapporti tra l’Australia Bianca e le popolazioni aborigene.
Il caso Yirrkala e il caso Mabo
2.1 Introduzione
Lungo la Stuart Highway - l’unica strada che taglia longitudinalmente il continente australiano nel suo centro desertico - in una stazione di servizio nei pressi di Tennant Creek, abbiamo incontrato un giovane aborigeno le cui parole, cariche di significato, hanno influenzato molto la genesi di questa esposizione.
“Io e te siamo così.” ci ha detto sicuro, unendo le mani con un gesto che voleva intendere uno stretto legame. Pochi istanti prima ci aveva chiesto la nostra provenienza e sorridendo alla nostra risposta aveva detto: “Ah, italiano!”.
In un primo momento non capivamo bene cosa potesse accomunare due culture lontane sedicimila chilometri, di due opposti emisferi, ma poi fu chiara la spiegazione.
“Io parlo la mia lingua, tu parli l’italiano…loro parlano inglese.” disse fermo. Loro sono gli Australiani bianchi, per molti, ancora oggi, gli invasori usurpatori. “Noi aborigeni, voi italiani, francesi, tedeschi, dobbiamo essere uniti contro di loro” sentenziò con un gesto definitivo.
Nella sua idea tutti gli “stranieri” dovevano unirsi ai loro fratelli nativi australiani per fare alzare alto il grido di protesta per i diritti civili negati e per la sudditanza a cui a tutt’oggi le popolazioni indigene sono assoggettate.
La fratellanza travalica il colore della pelle e la differente cultura, trovando un punto di contatto nella lingua inglese non parlata. Quella che il mondo ha assunto come lingua ufficiale, tramite universale di comunicazione, per ogni tipo di rapporto era, nell’idea del nostro giovane interlocutore, primo testimone delle differenze, icona di una separazione, attributo di appartenenza ad una parte della società australiana a cui ribellarsi.
Il paradosso era evidente: per capirci noi parlavamo inglese, l’inglese era la lingua che ci faceva simili, ma nello stesso tempo ci descriveva, nella sua imperfetta pronuncia, come diversi.
2.2 La questione politica
Il breve esempio narrativo sopra esposto sta a significativa dimostrazione dell’importanza che la dimensione “politica” assume in una qualsiasi indagine antropologica - anche quella che voglia connotarsi come una pura e semplice ontologia - riguardo gli indigeni australiani; e questo perché la stessa storia del continente è fortemente segnata del rapporto tra le popolazioni originarie e i colonizzatori europei.
La gestione di questi rapporti ha lasciato tracce ben profonde nei sentimenti e nella storia quotidiana di entrambe le parti in gioco, ed aspri confronti sono tutt’oggi in atto.
La ferita provocata dalla perpetrazione di barbare repressioni nei confronti degli abitanti originari dell’Australia non può essere taciuta ne ignorata come in passato e i recenti movimenti politici per il risveglio delle coscienze si sono attivamente adoperati in questo senso.
Nella gestione prepotentemente unilaterale del rapporto tra le due etnie operata dal governo coloniale prima e dalla federazione statale poi, si sono succeduti diversi modelli d’azione, ognuno dei quali ha avuto effetti rilevantissimi sull’organizzazione e sulla distribuzione spaziale dell’etnia più debole, implicando una vera e propria rimappatura delle zone di occupazione aborigena.
Si descriveranno ora le due principali tendenze operative di questa “conquista” del continente australe.
2.2.1 Sterminio e protezione
Il primo contatto reale tra europei e aborigeni avvenne all’indomani dello sbarco esplorativo del capitano Cook nel 1770; dove arrivavano gli inglesi battezzavano la terra nel nome della Corona e qui si stanziavano assumendone il possesso incontrastato.
Il 21 agosto del 1770 la parte meridionale della costa est del continente, in onore di re Giorgio III, fu ribattezzata New South Wales.
Anche se assistevano per lo più inermi all’invasione, gli indigeni non intendevano essere allontanati dalla terra in cui avevano vissuto per migliaia di anni senza combattere e per questo il governo coloniale scelse di intraprendere una soluzione risoluta e cruenta: lo sterminio.
Da una stima del 1788, anno della fondazione della prima colonia australiana, a Sydney, il numero della popolazione aborigena corrispondeva a 750.000 unità, nel primo secolo di colonizzazione, pena questa politica repressiva e le epidemie di malattie contro le quali le popolazioni indigene non avevano alcuna difesa immunitaria consolidata, questo numero scese drasticamente a 180.000 unità. Oggi, a più di due secoli dalla conquista, la popolazione indigena nazionale si attesta sulle 380.000 unità.
Sulla base del principio di terra nullius, di cui parleremo ampiamente più avanti, che descriveva l’Australia come suolo incolto e inabitato, gli “invasori” europei crearono una dominazione che prevedeva l’espropriazione della terra come atto naturale per la colonizzazione e le popolazioni che su quella terra vivevano da quarantamila anni, ingombranti presenze, darwinianamente considerate meno evolute e per questo destinate all’estinzione, furono allontanate da quel territorio con cui avevano non solo un legame economico ma anche spirituale.
In un secondo momento gli interessi per lo sfruttamento del territorio inasprirono la lotta portandola a conseguenze estreme. Nei primi decenni del XIX secolo i coloni europei del primo stato fondato, il New South Wales, cominciarono a spostarsi verso le alture ed a utilizzare le terre per il pascolo del bestiame, gli abitanti aborigeni costretti a continui spostamenti cominciarono a ribellarsi.
Nel 1838 gli aborigeni tesero svariate imboscate e uccisero alcuni allevatori presso i fiumi Gwydir e Namoi, vicino a Gunnedah a trecento chilometri nord-est da Sydney; a questo attacco seguì una sanguinosa rappresaglia presso la stazione di Myall Creek, vicino all’odierna Inverell, nella quale furono massacrati ventotto aborigeni.
Questo episodio scatenò una vasta reazione da parte dell’opinione pubblica tanto che la precedente assoluzione degli assassini fu tramutata, in un secondo momento, in esecuzione capitale per una parte di essi, ciononostante le barbarie non si fermarono.
Il massacro di Myall Creek è uno dei pochi avvenimenti che trova posto nella storia dei primi anni della colonizzazione bianca, ma molti altri atti di “dispersione”, come venivano eufemisticamente chiamati, non vengono citati e di tanti non si è nemmeno tramandata memoria, come fossero fatti di scarsa rilevanza.
Eppure l’entità di queste repressioni assumeva a volte vastissime proporzioni, come il caso di quella che si può chiamare una guerra non ufficiale mossa contro la popolazione indigena della Tasmania nella quale, secondo una stima degli storici, persero la vita 20.000 aborigeni.
Quasi grottesco nella sua tragica evoluzione questo episodio si dimostrò avere effetti anche a lungo tempo perché lo sterminio di questa popolazione nel 1876 fu fatto passare per naturale estinzione di una razza meno evoluta allorquando, alla morte di Truganini - secondo le cronache l’unico sopravvissuto degli aborigeni dello stato insulare - questo avvenimento fu descritto come la scomparsa “dell’ultimo di loro”. Per il governo coloniale gli aborigeni in Tasmania non esistevano più, di conseguenza fu negata ogni rivendicazione territoriale da parte dei loro discendenti.
Questa finzione corroborò le tesi della direzione coloniale circa la naturalità del processo di cambiamento del panorama razziale australiano, oltre a concorrere a creare una credenza del tutto sbagliata e un atteggiamento razzista nei confronti dei discendenti di quegli aborigeni assassinati. Atteggiamento che si può riscontrare nella lettera che un lettore di un giornale tasmano invia alla redazione:
Poiché gli originari aborigeni sono oggi estinti, le rivendicazioni della terra da parte dei loro discendenti sono meno convincenti delle proteste dei loro fratelli continentali e dei bianchi demagoghi di sinistra. […] Vantare progenitori originari per coloro che hanno una piccola traccia di sangue aborigeno sarebbe come per me che sono in parte irlandese e scozzese vantare diritti di possesso se il governo inglese si decidesse a concedere l’indipendenza al Nord Irlanda o alla Scozia.

Usata la scienza come testimone della palese inferiorità degli aborigeni, il governo non esitò ad usare a questo scopo altri mezzi di propaganda che attribuivano agli aborigeni caratteristici tratti di inferiorità, quali la scarsa attitudine lavorativa e la predisposizione all’ubriachezza, in più le punizioni inflitte si dimostravano essere tutt’altro che eque rispetto a quelle assegnata ai normali carcerati. Nell’Australia coloniale si poteva essere arrestati senza alcun motivo e l’ordine in caso di fuga era quello di sparare.
In questo clima di propaganda negativa gli indigeni erano spesso considerati come facilmente sacrificabili.
Ma a tutto questo gli aborigeni risponderanno nel migliore dei modi quando, acquistando un minimo di potere politico, alla reazione violenta sostituiranno un’azione di civile protesta per fare colpo su quella parte di opinione pubblica che comincia a rendersi cosa sta accadendo.
Il 26 Gennaio del 1938, festa nazionale australiana e ricorrenza dei 150 anni di colonizzazione bianca, l’Associazione Aborigena Progressista indice un incontro di discussione in netto contrasto con le allegre celebrazioni ufficiali.
Questa giornata di incontro sarà ribattezzata “il giorno del lamento”.
A conclusione della giornata di protesta viene redatta una dichiarazione che si trasforma in un manifesto nel quale vengono formulate esplicite accuse, con toni drammaticamente chiari, riguardo le azioni perpetrate dal governo australiano nei confronti degli indigeni, il titolo della protesta è “I Vecchi Australiani”:
Voi siete i Nuovi Australiani, ma noi siamo i Vecchi Australiani. Nelle nostre arterie c’è il sangue degli originali Australiani che vivono in questa terra da molte migliaia di anni. Voi siete arrivati solo di recente e ci avete sottratto la nostra terra con la forza. Voi avete quasi sterminato la nostra gente, ma ne sono rimasti abbastanza di noi per esporre la ridicola presunzione di voi bianchi Australiani di essere una civile, progressista, gentile e umana nazione. Per la vostra crudeltà e insensibilità verso gli Aborigeni voi siete condannati agli occhi del mondo civilizzato.

Cento anni dopo la strage di Myall Creek la consapevolezza è aumentata, monta la protesta, le cose cominciano a cambiare, di fronte all’opinione pubblica lo scempio operato nei confronti di un’intera etnia.
Il governo non può continuare ad avallare o, peggio, a promuovere questa strage. Ed allora cambia strategia, adotta un altra tecnica: la protezione.
Ufficialmente giustificata dalla convinzione che gli aborigeni fossero destinati all’estinzione di fronte all’inarrestabile progresso della “civiltà”, la nuova politica aveva lo stesso scopo della precedente: far sparire dalla vista le popolazioni indigene.
La falsa ideologia dell’assistenza promosse un piano di vera e propria segregazione, intere comunità vennero richiuse il missioni di stampo religioso amministrate da un governo locale o statale. In un luogo in cui potevano essere facilmente controllati, incominciavano ad essere impartiti loro insegnamenti sul modello dell’educazione occidentale.
Contrariamente alle previsioni, però, la popolazione indigena non diminuiva, aveva anzi registrato un significativo aumento demografico; per questo il governo intraprese una nuova e ancora più devastante politica d’azione: l’assimilazione.
In conclusione di questa breve introduzione dobbiamo esprimere tutta la nostra gratitudine e il nostro sincero ringraziamento alla Prof.ssa Franca Tamisari, del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Sydney, i cui suggerimenti e i costanti incoraggiamenti sono stati fondamentali per la realizzazione di questa Tesi.
2.2.2 Assimilazione
In un periodo in cui gli indigeni australiani non si stavano estinguendo, ma, anzi, cominciavano a porsi come un serio problema per la società dominate, fu approvata la politica dell’assimilazione.
Se la pratica della protezione aveva tentato di nascondere agli occhi dell’Australia “europea” le popolazioni autoctnone, questo nuovo orientamento operativo le avrebbe fatte sparire per sempre attraverso un completo processo di assorbimento
La nuova operazione si prefiggeva lo scopo di integrare completamente gli indigeni nella vita sociale e produttiva australiana, attraverso una rieducazione totale dell’intera popolazione nativa che sarebbe stata di lì a poco completamente asservita alla civile organizzazione euroaustraliana.
Già iniziata nello Stato del Victoria nel 1886 e ufficialmente adottata come politica educativa da ogni stato nel 1937, l’assimilazione si dimostra essere un tragico strumento che, fornendo un’educazione europea alle popolazioni indigene, mirava a immettere germi distruttivi nella loro cultura, una sorta di retro virus che avrebbe portato alla trasformazione totale della popolazione.
Non sembrino queste metafore troppo ardite se Rowley riferisce che “questa politica considerava anche un eventuale assorbimento genetico, un assorbimento che i bianchi vedevano come la scomparsa di spiacevoli comportamenti e caratteristiche di un intero gruppo.”
Continuando una pratica già usata in passato, in questi anni un grande numero di aborigeni fu spostato dai posti di residenza verso missioni, fu loro impartita un’educazione europea e costretti a vivere in modo europeo; gruppi di clan furono separati e costretti a vivere in nuclei familiari, in abitazioni, a lavorare.
Lo scopo di questa pratica sarà quello di “preparare” gli aborigeni ad una serie di scelte, la più incoraggiata delle quali sarà entrare nella normalità della principale società australiana e divenire esattamente come gli altri australiani.
Le missioni erano lo strumento principe di questa assimilazione, all’interno di queste gli indigeni erano invitati a considerare la loro cultura, il loro modo di vita e il loro “paese” come non aventi alcun senso ai fini della loro prossima trasformazione in australiani civilizzati e, in quei luoghi, venivano considerati in uno stato transitorio della loro educazione.
Per potenziare l’azione di questa pratica si adottò un’altra politica, a partire dagli anni cinquanta, atta a cancellare ogni residuo di barbarie: intere generazioni di bambini furono sottratte legalmente alle proprie famiglie e affidate a istituzioni governative o a genitori adottivi bianchi come parte dell’educazione per un’integrazione totale. Questi bambini vengono oggi chiamati la Generazione Rubata.
È solo in tempi recenti che questo genocidio culturale è venuto alla luce, all’attenzione dell’opinione pubblica.
Nel 1995 Michael Lavarch, delegato generale per i Diritti umani dello Stato Australiano, commissiona un’inchiesta d’indagine che riferisca sulle pratiche del passato. Si richiede di:
analizzare le leggi, e la politica che ha causato la separazione forzata di bambini aborigeni dalle loro famiglie e gli effetti di questa separazione
studiare la possibilità per un cambiamento nelle leggi odierne in merito a queste pratiche, la possibilità di risalire alla famiglia originaria attraverso indagini e l’assistenza per l’effettiva riunione di queste famiglie.
esaminare i principi rilevanti per determinare le giuste compensazioni per le persone e le comunità affette da queste separazioni.
esaminare le leggi correnti in rispetto del principio di autoderminazione delle popolazioni aborigene.
Il risultato di questa inchiesta è trascritto nella famosa relazione “Bringing them Home. Report of the National Inquiry into the Separation of Aboriginal and Torres Strait Islander Children from Their Families. April 1997” che è dedicata “alla forza ed alla lotta di migliaia di Aborigeni e Isolani dello Stretto di Torres costretti ad una forzata separazione dalle loro famiglie, a coloro i quali hanno avuto la forza e i coraggio di raccontare la loro storia alla Commissione d’inchiesta.”
La pubblicazione di questa relazione ha avuto un grosso impatto sull’opinione pubblica, da ogni parte si sono levate voci di sdegno per la barbara politica di educazione di quegli anni; il contenuto di quelle pagine è stato molto importante per il processo di riconciliazione.
In quelle righe viene narrata tutta la sofferenza di migliaia di persone, si può facilmente immaginare cosa questo sradicamento abbia provocato all’interno di una popolazione già lungamente provata da fatti di sangue nei decenni precedenti, allontanamento dalla terra ha significato perdita della propria identità culturale, il più ricco patrimonio in possesso di un qualsiasi essere umano.
Ad i valori di cooperazione e rispetto reciproco si sostituirono quelli occidentali di ottimizzazione della produttività e concorrenza, la storia della terra, con i suoi eventi mitici e ritmi produttivi, fu dimenticata, il rispetto per le tradizioni volutamente negato.
Intere generazioni si trovano ora allo sbando in bilico tra una dignitosa vita comunitaria tradizionale non più voluta - ciò che gli aborigeni vogliono oggi spesso sono i soldi dell’Occidente - e una parità che, per quanto fortemente desiderata, è per ora solo un lontano miraggio.
A loro sono state date solo illusioni da parte di un governo che in realtà non aveva mai inteso instaurare un rapporto di effettivo scambio culturale nei due sensi, nel quale entrambe le parti potessero arricchirsi, ma pensava soltanto di assorbirli nella propria logica produttiva.
La tentata educazione imposta non è indice di una convivenza pacifica voluta, solo coercizioni sono venute dal governo federale mentre i diritti sono stati continuamente negati.
Con la cittadinanza acquisita nel Maggio del 1967, all’indomani di un referendum popolare, gli aborigeni hanno acquisito diritti e doveri pari agli altri cittadini bianchi ma l’integrazione è un processo lungo e per ottenerlo ci vuole la partecipazione di entrambe le parti, non si ottiene con una votazione.
Inoltre, in questi anni, nuovi interessi economici hanno tracciato la strada dei rapporti tra lo stato australiano e le comunità aborigene, molteplici interessi si sono sviluppati per lo sfruttamento del territorio all’indomani del Northern Territory Land Rights Act del 1976 che ha sancito la restituzione di terre - solo però nello stato in questione - sottratte al tempo della prima colonizzazione agli originari proprietari.
Una parte di questi interessi riguarda lo sfruttamento ad uso turistico di alcune di queste terre trasformate in parchi nazionali. È il caso di Uluru-Kata Tjuta National Park, a quattrocentocinquanta chilometri a sud-ovest da Alice Springs, sede del monolite più grande del mondo: Uluru (Ayers Rock) e delle formazioni rocciose delle Kata Tjuta (le Olgas, in lingua inglese).
Solo nel 1985 e dopo una disputa durata dieci anni questi importanti siti furono restituiti ai legittimi proprietari, riaffittati all’Australian Nature Conservation Agency, sono ora gestiti da una commissione composta da bianchi e da aborigeni.
Ma ben altri interessi riguardano terre aborigene restituite: sono quelli legati alla presenza e allo sfruttamento di importanti giacimenti minerari. È il caso della miniera di uranio di Jabiluka, all’interno del Kakadu National Park ad nord-est di Darwin. Situata all’interno del parco nazionale ma anche facente parte di un territorio chiamato Terra di Arnhem, definita da molti anni come terra aborigena e sede di varie comunità di indigeni, è in questi anni diventata “pietra dello scandalo” per un’azione importante di rivendicazione di diritti territoriali.
Tracciamone in breve la storia: uno dei grandi atti di rivendicazione all’indomani del sopracitato atto del 1976 portò al riappropriazione della grande area delle piane fluviali dell’Alligator River, una vasta area che passò sotto il controllo delle popolazioni aborigene, come nel caso di Uluru questo territorio fu subito restituito in prestito-usufrutto, per un periodo di cento anni, al Commonwealth australiano che creò il parco nazionale, luogo di enorme interesse naturalistico e storico, meta di un grande flusso turistico.
È proprio sulla base di questo prestito che il Commonwealth esercitò i propri diritti di sfruttamento all’indomani della scoperta di un vasto giacimento di uranio.
Anche per tutti questi interessi in ballo l’Australia resta a tutt’oggi ancora un continente diviso; per quanto il governo continui a sforzarsi nell’appianare le divergenze, o, peggio, nel nasconderle, non vale l’istituzione di un Giorno di Scusa (26 Maggio)
all’anno per dimenticare le barbarie subite.
La realtà sta nelle statistiche: il 31% della popolazione aborigena è senza casa o con un’inadeguata sistemazione, la speranza di vita di un indigeno è quindici-vent’anni inferiore di quella di un bianco, il tasso di mortalità infantile è 2,7 volte superiore rispetto a quella euroaustraliana, il tasso di disoccupazione è sei volte più alto e in media un aborigeno guadagna la metà rispetto ad un suo concittadino bianco.
Di fronte a questi dati drammaticamente esemplari le lobby del turismo, dello sfruttamento delle risorse e, in questi mesi, dei Giochi Olimpici solo in parte riescono a nascondere il malcontento generalizzato a tutt’oggi ben presente tra le comunità aborigene.
E se la tentata strada dell’assimilazione non è mai stata abbandonata del tutto - si pensi al fatto che la fiamma olimpica nell’occasione dei Giochi Olimpici a Sydney nel 2000 partirà proprio da Uluru, simbolo voluto del tanto propagandato legame tra i “vecchi” e i “nuovi” australiani - la spesso difficile convivenza non è solo una bandiera da sventolare al cospetto dei movimenti progressisti per il riconoscimento delle minoranze etniche, bensì una realtà su cui riflettere profondamente andando alla ricerca dei motivi di questo scontro, poiché in quei motivi si ritrovano gli stessi fondamenti del sistema culturale aborigeno. In pratica le due dimensioni, politica e culturale, non possono essere distinte ma vanno capite nel loro intrecciarsi.
Anche agli occhi della più superficiale indagine non può sfuggire il fatto che la lotta per i diritti di possesso della terra si dimostra essere l’obiettivo privilegiato di ogni discussione che verta sul rapporto politico tra le due etnie e, per controparte, qualsiasi analisi che voglia prendere come soggetto il sistema cosmologico e rituale aborigeno non può che partire e tenere come costante riferimento quella stessa terra così tanto al centro di queste dispute.
Risulta perciò chiaro come uno dei principali motivi fondanti l’ontologia aborigena australiana e punto di unione tra le due dimensioni sopraesposte sia la terra. In ogni sua accezione e nei molteplici aspetti del rapporto che intercorre con e tra i propri abitanti, la terra sarà l’oggetto d’analisi della successiva parte di questo capitolo che si preoccuperà di sottolinearne il ruolo principe nella politica economico-culturale australiana.
2.3 La terra
Paradigma dell’antropologia, il rapporto viscerale tra territorio e uomo nelle società di cacciatori e raccoglitori, è maggiormente evidente nel caso che si andrà ad analizzare poiché l’intero mondo per gli abitanti del continente australe è un insieme di terre che hanno connotazioni “personali”, e per questo specificatamente possedute, sono luoghi creati dai progenitori ancestrali e che necessitano di “cura” continua.
Per comprendere meglio questo punto si porrà l’attenzione su un brano di T.G.H. Strehlow, sommo interprete e conoscitore della cultura aborigena:
Questa descrizione può spiegare l’immenso sentimento di affetto che un nativo ha per il suo territorio ancestrale. Montagne e ruscelli e sorgenti e pozzi d’acqua per lui non sono soltanto interessanti o piacevoli caratteristiche paesaggistiche delle quali i suoi occhi possono momentaneamente godere, sono il manufatto dei suoi progenitori ancestrali dai quali egli stesso discende. Egli vede segnate nel paesaggio che lo circonda le storie delle vite e delle azioni di quegli esseri mortali che venera; esseri che per un breve momento possono prendere ancora una volta la forma umana; esseri che egli ha conosciuto nella sua esperienza come suo padre e suo nonno e i suoi fratelli, e sua madre e le sue sorelle. L’intero paese è il suo vivente e passato albero genealogico. Per il nativo la storia del suo progenitore ancestrale sono le sue gesta, all’alba della formazione della vita, quando il mondo come lo conosce ora lui fu plasmato e formato da quelle mani onnipotenti. Egli stesso ha giocato una parte in quella prima gloriosa esperienza, una parte piccola o grande a seconda del ruolo che ha giocato quel progenitore di cui egli è la presente forma reincarnata.

Divisi in clan totemici originati dai diversi progenitori i gruppi aborigeni hanno una responsabilità quotidiana, sentono il bisogno di prendersi cura della propria terra, perché essa continui ad essere viva e propagatrice di vita e per questa terra sono pronti a combattere.
2.4 I movimenti per i diritti sulla terra
Compresa ora l’importanza così fondamentale del valore della terra per le popolazioni aborigene, risulta chiara altresì l’importante presenza dei movimenti per i diritti sul possesso di quest’ultima che, soprattutto a partire dagli anni sessanta, hanno riscritto la storia dei rapporti tra le due etnie.
Nello svolgersi di queste “lotte” si possono riconoscere tre divisioni temporali epocali: un primo periodo dall’inizio della colonizzazione inglese fino agli anni sessanta di questo secolo, un secondo lasso temporale che va dagli anni sessanta al 1971, e un terzo che arriva fino ai giorni nostri.
Durante questi periodi la controparte statale attuò una politica ben definita per gestire la situazione. I tre periodi sono noti come: Protezione (1930-1959), Assimilazione (1960-1971), Autodeterminazione (dal 1972), queste denominazioni descrivono le pratiche adottate dal governo federale nella lunga disputa per i diritti umani e civili delle popolazioni indigene.
Di ognuna di queste parentesi temporali sarà data descrizione dei tratti salienti, delle tematiche di fondo e si porrà l’attenzione su tre casi che hanno segnato lo svolgimento di queste dispute, avvenimenti che hanno lasciato un segno che a ben ragione si può definire epocale. Queste sono il Caso Yirrkala (1963-1971), il Aboriginal Land Rights (Northern Teritory) Act del 1976 e la sentenza Mabo (1992).
Ai fini dell’intento di questa esposizione si porrà poi particolare accento sul primo di questi tre casi che, come vedremo, nei suoi sviluppi si impone come paradigma di ogni lotta per i diritti terrieri e exemplum descrittivo dell’intera ontologia aborigena.
2.4.1 1788-1959
La risposta alle invasioni degli inglesi da parte delle popolazioni aborigene cominciò immediatamente all’indomani della fondazione, nel 1788, della prima colonia a Sydney Cove, nel bel porto naturale di Port Jackson anche se la potenza bellica degli avversari era difficilmente contrastabile. Per decenni si ebbero feroci lotte sanguinose che decimarono la presenza aborigena nelle terre occupate con la forza dalla Corona. Gli indigeni australiani erano considerati alla stregua di esseri meno evoluti e per questo sicuramente destinati all’estinzione.
Verso la seconda metà dell’Ottocento, ma soprattutto nella prima metà di questo secolo, quando il palese sterminio non poteva più essere nascosto agli occhi dell’opinione pubblica, il governo decise di destinare alcune terre al solo uso di stanziamento per gli aborigeni, è l’inizio del periodo del Protezionismo.
Queste “riserve” erano governate per lo più da bianchi ma col tempo si sarebbe lasciata sviluppare una certa indipendenza. Il “contratto” non prevedeva il possesso della terra ma consolidava un’abitudine di stanziamento tra aborigeni e una particolare area. Nessuna garanzia legale tutelava le popolazioni indigene e il governo poteva riappropriarsi del “prestito” terriero in qualsiasi momento, in più i rapporti tra allevatori e aborigeni restavano tesi.
Significativo il caso dello stanziamento di Corranderrk a nord-est di Melbourne: nato come stanziamento temporaneo nel 1863 e sviluppatosi ampiamente in quegli anni, nel 1884 si trasformò in stabile. Ma tutto ciò non bastò a garantirne la sopravvivenza quando nel 1886 le pressioni degli allevatori della zona spinsero il governo del Victoria a forzare la dispersione degli agglomerati formatisi. Nel 1893 metà degli abitanti si erano trasferiti altrove e tra il 1924 e il 1948 gli spostamenti forzati e la morte degli ultimi abitanti fecero in modo che il territorio fosse di nuovo completamente espropriato.
Con simili caratteristiche anche un altro caso ben più recente: tra il 1961 e il 1963 gli abitanti di Mapoon nel Queensland furono allontanati con la forza dalle loro terre dal governo statale che voleva darle in gestione a varie compagnie minerarie per l’estrazione di metalli preziosi.
Malgrado tutte queste azioni d’esproprio andassero sempre in porto gli aborigeni non stettero a guardare e a partire dai primi anni del Novecento, abbandonata la rivolta violenta, si unirono in associazioni confederative che lottavano per il rispetto dei diritti umani e terrieri e per la uguale retribuzione salariale. La più nota di queste prime associazioni è la Aborigines’Progressive Association (APA) promulgatrice di quel manifesto di cui si è già data notizia più sopra.
Diverse manifestazioni furono il risultato dell’azione di queste associazioni: marce per le condizioni di vita, proteste contro allevatori e proprietari terrieri (Pilbara, 1946), scioperi per i salari (Darwin, 1951); finalmente l’opinione pubblica era messa al corrente di ciò che era stato taciuto, o ignorato, per decenni, e tutto questo grazie anche all’azione di sensibilizzazione operata da un’associazione bianca: The Association for the Protection of Native Races (APNR). In questo periodo anche la stampa cominciò a dare conto di ingiuste azioni contro indifesi aborigeni e vari studiosi tra cui l’antropologo A. P. Elkin, il fondatore della cattedra di antropologia all’Università di Sydney, scrivevano su giornali articoli per denunciare le imposizioni della legge bianca sugli indigeni.
Di fronte a tutto questo, comunque, gli aborigeni continuavano a non essere considerati cittadini australiani, erano negati loro i basilari diritti e non erano ammessi al voto, ma negli anni cinquanta accaddero due avvenimenti che portarono al cambiamento delle cose: questi sono i casi di Albert Namatjiria e Robert Tudawali.
Albert Namatjiria era un pittore residente presso la missione di Hermannsburg nel territorio Aranda nello stato del Northern Territory; per i suoi meriti artistici, fu innovatore nel campo della pittura tradizionale adottando la tecnica dell’acquerello e dipingendo paesaggi, gli fu conferita la cittadinanza ad honorem nel primi anni cinquanta. Insignito di questo titolo gli furono concessi tutti i diritti dei bianchi tra cui la possibilità di acquistare alcol nei pubblici esercizi, possibilità negata a tutti gli aborigeni del territorio. Poco tempo dopo fu arrestato per aver condiviso delle bevande alcoliche con due suoi figli adulti ai quali restava interdetta questa possibilità. La sua morte nel 1958 si attribuisce allo stato di prostrazione in cui era caduto in seguito a questo episodio.
Simili cause portarono in prigione anche Robert Tudawali nel giorno di Natale del 1959: anche egli insignito della cittadinanza per meriti artistici - era un attore affermato - fu incarcerato per aver condiviso alcol con adulti aborigeni.
Il grande impatto che questi due episodi ebbero sull’opinione pubblica provocarono una reazione a livello generalizzato che portò a cambiamenti epocali, si entra nella seconda fase del rapporto tra gli euroaustraliani e gli indigeni.
2.4.2 1960-1971
Gli anni sessanta furono molto movimentati per quanto riguarda i rapporti tra le due etnie, teatro di avvenimenti importanti, questi anni saranno testimoni di un fondamentale avvenimento: la concessione nel 1967 della piena cittadinanza a tutti gli aborigeni d’Australia.
Tuttavia la storia ufficiale non rende giustizia agli avvenimenti di quegli anni, mentre si riconoscevano alle popolazioni indigene i fondamentali diritti civili, altri fondamentali diritti umani venivano drammaticamente calpestati.
È il caso della Generazione Rubata, il risultato della pratica dell’Assimilazione attuata in questi anni dalle maggiori istituzioni civili e religiose. Come abbiamo già visto sopra, un’intera generazione di bambini aborigeni fu sottratta alle loro famiglie e “segregata” in istituzioni statali per venire educata in maniera “occidentale”.
La storia delle usurpazioni non ha fine: due episodi significativi dimostrano ancora lo strapotere statale, questi sono il Caso Yirrkala (1963) e il Caso Gurindji (1965), entrambi scoppiati nello stato del Northern Territory.
Nel 1963 la popolazione di Yirrkala, una comunità aborigena situata nella Terra di Arnhem ad est di Darwin, protestò per la mancata consultazione a proposito della loro terra all’indomani delle concessioni governative fatte ad una società mineraria per lo scavo di una miniera di bauxite.
Il caso ebbe un seguito alla Corte Suprema ove fu intentato un processo da parte delle comunità aborigene a carico della ditta mineraria e dello stesso Commonwealth australiano. Il giudizio fu emesso nel 1971 e anche se alla fine le proteste non furono soddisfatte - vinse la difesa in base ad una interpretazione occidentale dei concetti culturali aborigeni, specialmente quello di proprietà - un importante passo si era fatto per il diritto di riconoscimento delle terre da parte dei tradizionali proprietari.
Il caso Gurindji invece riguarda in un primo tempo l’equiparazione dei salari tra aborigeni e bianchi per i lavoratori nel settore dell’allevamento. La richiesta fu soddisfatta, ma ciò che scatenò il caso fu il fatto che i pagamenti non dovessero essere effettuati prima di trenta mesi.
A tutto ciò le popolazioni risposero con una serie di scioperi il più famoso dei quali fu quello della stazione di Wave Hill nel 1966: la gente Gurindji fondò un nuovo stanziamento presso Wattie Creek, in un’area ritenuta la loro terra tradizionale, e quella che era iniziata come una rimostranza per il salario si trasformò in un movimento per il riconoscimento delle terre sottratte.
Ecco perché questi due casi, anche se non ebbero pieno riconoscimento delle loro rivendicazioni, furono “importanti segni di cambiamento che si trasformarono in simboli della lotta aborigena per i diritti terrieri.”
L’opinione pubblica era informata e molti interrogativi si ponevano circa le risoluzioni che il governo intraprendeva a riguardo di questi problemi, si imponeva una svolta, e la svolta avvenne.
Il 27 Maggio del 1967 fu promulgato un referendum popolare per la piena attribuzione della cittadinanza alle popolazioni aborigene australiane.
In quei giorni la campagna a favore del “Si” fu chiaro testimone dell’importanza che la causa aborigena aveva acquistato anche presso la popolazione bianca, e non c’era partito politico che non la sottoscrivesse pienamente. I mea culpa si alzavano da ogni parte e la buona risoluzione delle votazioni sembravano l’unica possibilità espiatoria:
Noi abbiamo preso la loro terra, decimato le loro genti, degradato le loro donne, tolto loro ogni dignità e costretti a vivere nello squallore. Questa è la nostra possibilità di fare ammenda. Abbiamo ancora molto da fare. Ma almeno possiamo cominciare col trattarli come nostri eguali.

Il popolo australiano si espresse a favore dell’attribuzione della cittadinanza agli aborigeni con una percentuale del 90,77 ed in ogni stato i “Sì” furono vincitori.
All’indomani di questa epocale votazione anche i partiti politici inserirono nei loro piani elettorali la questione aborigena e nuove agenzie apparvero in questo periodo: è il tempo del Aboriginal Legal Service, un nuovo modo di combattere le battaglie.
Molte di queste saranno vinte, soprattutto quelle nell’ambito dei diritti civili: si ricordi il Prohibition Discrimination Act del 1966 nello stato del South Australia, il Racial Discrimnation Act del Commonwealth del 1975 e l’Aboriginal and Torres Strait Islanders (Queensland Discriminatory Laws) Act del 1975.
Sulla base di queste disposizioni, anche se la loro diffusione non fu di per sé risoluzione di tutti i problemi, una nuova ridefinizione dei diritti civili delle popolazioni indigene prese corpo, le varie corti statali cominciarono a punire con la legge le radicate ideologie razziste e i pregiudizi difficili a morire come il caso dei cinquemila dollari di ammenda ad un proprietario di un locale pubblico di Hobart, nello stato della Tasmania, che si era rifiutato di servire bevande alcoliche ad un aborigeno, o l’illegale comportamento repressivo della polizia.
Una nuova stagione di tentata uguaglianza sul piano dei diritti civili si stava delineando, di pari passo si svolgeva anche la stagione per il riconoscimento dei diritti terrieri.
È il 1966, in contemporanea alla marcia di Wave Hill, quando il governo del South Australia si decide a fare i primi passi: in disaccordo con il governo centrale di stampo liberale, l’amministrazione laburista capeggiata dal premier Walsh istituisce l’Aboriginal Land Trust Act. Le terre aborigene assumono diritti legali all’interno di questo trust e potranno essere affittate o vendute a beneficio del solo interesse delle popolazioni autoctone dell’Australia del sud.
A questa modalità di unione delle terre in un trust faranno eco ulteriori iniziative intraprese da altri stati come il Victoria che emana nel 1970 l’Aboriginal Land Act, o il Western Australia che promulga nel 1972 l’Aboriginal Affairs Planning Authority Act.
Malgrado queste prese di posizione il rapporto tra aborigeni e stato era negoziabile solo all’interno delle politiche territoriali dei singoli stati e non c’era una politica unitaria della federazione Australiana, ne tanto meno una presa di posizione del Commonwealth. Una risoluzione a livello globale era necessaria e questa arrivò.
2.4.3 1972 - 1999
Con l’avvento del governo laburista del Primo Ministro Whitlam nel 1972 la politica del governo cambia ancora una volta, si inaugura la stagione dell’autodeterminazione, un periodo che dura tutt’oggi.
In questi anni vengono prese diverse decisioni che a buon titolo si possono definire “epocali” per l’importanza delle loro implicazioni nel rapporto tra le due etnie presenti nel continente australiano.
L’8 Febbraio del 1973 viene istituita, ad opera del governo centrale di Canberra, una Commissione di indagine sul territorio che vide come principale attore il giudice A. E. Woodward, consigliere degli aborigeni nella causa intentata dalle popolazioni aborigene contro la Nabalco Pty. Ltd. Tempi e protagonisti di questo avvenimento non sono casuali, tutto questo accade a due anni di distanza della sentenza del caso Yirrkala, che come vedremo, fu di grande impatto sull’opinione pubblica e nodo di svolta
A questa commissione si richiede uno studio su: “gli appropriati mezzi per riconoscere e stabilire i tradizionali interessi aborigeni sulla terra e sui metodi per soddisfarne le ragionevoli aspirazioni ai diritti sulla stessa.”
Il giudice Woodward compila due relazioni il 19 Luglio 1973 e il 3 Maggio 1974, nella seconda egli raccomanda che sia emanato “uno statuto che definisca, previa elaborata indagine, i diritti di riconoscimento della terra da parte delle popolazioni aborigene.”
Il 2 Luglio del 1974 il governo Whitlam annuncia che ha accolto, nei principi di base, le raccomandazioni del giudice Woodward e presenta il progetto di legge in Parlamento a Canberra il 16 Ottobre del 1975, è la prova generale per quella che sarà auspicata come una nuova era nei rapporti tra le due etnie, l’età di una pacifica e legalmente garantita convivenza civile.
Le vicende del governo Whitlam però faranno in modo che ci sia una interruzione di questi lavori che riprenderanno l’anno seguente.
Sotto il governo Fraser la proposta di legge derivata dall’inchiesta commissionata dal Primo Ministro Whitlam viene nuovamente introdotta in Parlamento il 6 Giugno del 1976, la discussione avrà termine il 17 Novembre, e in quello stesso giorno sarà emanato il Aboriginal Land Rights (Northern Territory) Act 1976.
Analizziamolo in breve.
Come prima cosa si consideri l’Atto nella sua completa enunciazione: Un atto per la garanzia della concessione della terra tradizionale aborigena nel Northern Territory a favore degli Aborigeni e per altri scopi.
Per una adeguata descrizione degli scopi che l’atto intendeva perseguire riportiamo le parole del giudice Woodward:
[…] semplicemente rendere giustizia alle popolazioni che sono state private della loro terra senza il loro consenso e senza nessun risarcimento, la promozione dell’armonia sociale e della stabilità all’interno dell’ampia comunità australiana rispondendo, per quanto possibile, alle legittime rimostranze di un gruppo di minoranza all’interno di quella comunità, […] la preservazione, ove possibile, del legame spirituale con la propria terra che dà ad ogni aborigeno il senso di identità e che sta alla base delle sue credenze religiose.

Per ottenere questo, secondo il giudice Woodward, si dovrebbe agire:
preservando e rinforzando tutti gli interessi aborigeni sulla terra e sui diritti sulla terra particolarmente, particolarmente su quelle che hanno importanza spirituale, assicurandosi che nessuno di questi interessi o diritti sia in seguito sottratto senza consenso, eccetto quel caso dove l’interesse nazionale lo richiede, e comunque previa una giusta compensazione, attribuendo alcune basilari compensazioni sotto forma di terra a quegli aborigeni che fossero stati irrevocabilmente privati di diritti ed interessi che sarebbero stati loro garantiti dagli antenati o che siano stati solo in parte compensati dalla società bianca.

Le due citazioni pongono l’accento su concetti particolarmente interessanti: lo scopo principale del governo appare la restituzione delle terre ai loro legittimi proprietari - dove si era falliti nel caso Yirrkala si vuole porre rimedio - ma le affermazioni rilevanti sono quelle che riguardano parole come “spirituale”, “antenati”, “affiliazione rituale”.
Per la prima volta si adotta un nuovo sguardo emico, a questo punto della secolare disputa per i diritti sulla terra la controparte statale si preoccupa di definire cosa significhi terra e come gli indigeni entrino in rapporto con essa. È necessario stabilire il possesso in termini di legge indigena e rapportare la legge occidentale a quella aborigena.
Ed è proprio su questo punto che l’Atto del 1976 pone le basi per una dirompente e nuova concezione del possesso della terra, in quelle pagine viene sancito il principio di affiliazione spirituale alla terra.
Secondo questo principio gli abitanti indigeni possono a tutt’oggi reclamare diritti su territori in base a concezioni non occidentali di appartenenza quali i legami rituali o mitico-storici.
Tra tutti i legami che il tradizionale uomo aborigeno ha con qualcosa o qualcuno, il più importante è riconosciuto essere quello con una particolare area che lui stesso definisce come suo “paese”.
È una sorta di autodeterminazione di importanza epocale, le popolazioni sono riconosciute indipendenti e lasciate “libere di seguire il loro tradizionale metodo nelle decisioni, libere di scegliere la maniera in cui vogliono vivere”
, cambia il concetto di proprietà, o meglio cambia il concetto di proprietario, ora questo si connota come:
un locale discendente gruppo di aborigeni che ha comuni legami spirituali verso un particolare sito della terra, affiliazioni che pongono il gruppo in importante responsabilità spirituale verso il sito e la terra.

Attenzione viene posta alla sovranità della gente aborigena sulle proprie terre. Ad esempio le esplorazioni minerarie d’ora in poi saranno possibili solo con il consenso degli aborigeni che potranno su questi argomenti far valere un veto.
Viene decisa la creazione del Kakadu National Park, una vasta area ad est di Darwin, in una antica terra aborigena di grande interesse naturalistico e culturale, la gestione del quale sarà una cooperazione tra il governo e gli abitanti locali.
In base a queste decisioni promulgate con l’Atto del 1976 si volle dare effettivo potere alle popolazioni indigene riguardo l’amministrazione della proprie terre.
Ma in un punto l’Atto denota una debolezza, la sua versione definitiva del 1976 si discosta dalla prima versione dell’anno precedente per un significativo particolare: nella prima ipotesi erano previste compensazioni sia per i diritti sulla terra che per quelli di necessità basilari, decisione espunta dalla definitiva stesura.
Quello che il Primo Ministro laburista Whitlam aveva immaginato era la possibilità di gestire una proprietà privata sulla base dell’autodeterminazione, possibilità che si esercita attraverso “giuste” rivendicazione che però, ed ecco un altro punto debole, devono essere dimostrate.
Queste rivendicazioni prevedono prove della responsabilità spirituale di un sito, in pratica per avere diritti su un territori gli aborigeni devono dimostrare una diretta e prolungata relazione religiosa ed economica con la terra su cui vantano diritti.
Questo resta un punto insoluto e ampiamente dibattuto a tutt’oggi, la tanto propagandata autodeterminazione resta soggetta al giudizio governativo. Il paradosso è di fronte agli occhi di tutti: oggi le popolazioni indigene devono dimostrare, di fronte ad un organismo statale, chi sono per avere diritto alla terra, e questo riconoscimento si stabilisce sulla base di determinazioni spirituali autoctone che però vengono analizzate sotto un ottica economica “occidentale” e in un contesto giuridico-legale.
Gli aborigeni vengono a tutt’oggi definiti ancora all’interno di discorsi ideologici, politici e legali di matrice anglo-australiana.
Ed ancora: se un aborigeno oggi può avere diritto per legge a reclamare la terra secondo diritti che gli provengono dai suoi antenati, nulla può chiedere riguardo ad una dignitosa condotta di vita che gli garantisca una casa, una previdenza sociale, un impiego.
Siamo di fronte ad una sorta di “terra senza uomini e uomini senza terra” dell’emisfero australe, una condizione che pone ancora oggi la popolazione aborigena in uno stato di sudditanza verso la società bianca, anche per questo le tensioni tra le due etnie sono visibilmente riscontrabili e la buona convivenza, come al solito, non è sancibile per legge.
Sono passati anni di decisioni, legislazioni e lotte per i diritti civili ma esempi ben chiari descrivono la strada della parità ancora lunga da percorrere: è il caso degli ultimi anni in cui, a detta delle popolazioni della Terra di Arnhem, il governo del Northern Territory si schiera apertamente contro l’Atto e ancora si pongono gravi questioni circa la miniera di uranio Jabiluka, che il governo australiano e il Commonwealth hanno permesso all’interno di terre aborigene che fanno parte del Kakadu National Park.
Ma non si vuole sminuire con questo la portata epocale dell’atto che resta, per il suo peculiare interesse verso i concetti base dell’ontologia aborigena, una fondamentale legge che esprime il fermo diritto delle popolazioni aborigene a mantenere, attraverso il contatto con la terra, la loro identità e la loro cultura.
2.5 Il Caso Yirrkala
L’importanza storica di avvenimenti come l’atto del 1976 o, come vedremo, della sentenza Mabo del 1992 è chiaramente comprensibile alla luce di quello che il tempo ha dimostrato essere le conseguenze di queste decisioni, ma per una completa analisi dell’andamento delle relazioni tra le due etnie non può non essere considerato allo stesso modo nelle sue più viscerali implicazioni tutto il lascito che un’altra sentenza ha portato con sé: questa è la sentenza del Caso Yirrkala del 1971.
Nei prossimi paragrafi procederemo alla descrizioni degli eventi e porremo l’attenzione non tanto sulla risoluzione del caso, peraltro già trattata in precedenza, ma piuttosto sulle prove apportate alla Corte, prove che descrivono, nella loro importanza, i fondamenti del sistema ontologico della popolazione aborigena degli Yolngu e, in generale, dell’intera popolazione aborigena australiana.
All’inizio del 1963 il Commonwealth australiano espropria un terreno di centoquaranta acri della penisola di Gove, nei pressi della missione metodista di Yirrkala, a nord-est di Darwin e lo concede in uso alla società mineraria Nabalco Pty Ltd per esplorazioni e successivi prelevamenti di bauxite. Questo territorio fa parte della riserva aborigena della Terra di Arnhem.
Nel luglio dello stesso anno gli anziani aborigeni della terra in questione inviano una petizione, scritta in inglese e nella loro lingua natia, incollata al centro di un tipico dipinto su corteccia, al parlamento centrale di Canberra. Questa verrà ricordata come la famosa “Petizione di corteccia” (The Bark Petition).
Le rimostranze lamentano il fatto che nessuna consultazione sia avvenuta prima dell’espropriazione delle terre e si chiede una commissione di indagine che ascolti i tradizionali proprietari della terra prima di procedere con gli scavi.
A questa petizione il governo risponde, perfettamente in linea con la sperimentata teoria della terra nullius, che:
quando l’Australia fu colonizzata, a quel tempo gli Aborigeni Australiani furono considerati come non aventi alcun titolo di possesso sulla terra. Il nostro intero sistema di gestione della terra si basa su quel presupposto.

Con un compromesso, alle popolazioni indigene viene garantito il diritto di caccia sul territorio espropriato e la salvaguardia dei siti sacri.
Tutto ciò non soddisfò affatto le comunità autoctone che ben presto portarono il caso alla Corte Suprema dello stato del Northern Territory.
Il caso Milirrpum and others versus Nabalco Pty Ltd and the Commonwealth of Australia, vedeva contrapposti da una parte alcuni clan della la popolazione aborigena degli Yolngu e dall’altra il Commonwealth, la ditta mineraria e l’intero sistema di concessioni governative della terra.
Gli aborigeni rivendicavano interessi proprietari sulla terra e chiedevano i danni per l’intrusione nelle loro terre, per il danneggiamento dei loro siti sacri.
Quello che il processo portò alla luce, a ragione della sua risoluzione, fu la disparità di vedute circa i concetti di proprietà ed uso della terra, concetti così diversi da non essere compresi dalla Corte, da una parte gli interessi economici, dall’altra la terra vista come entità viva, parte stessa della pratica religiosa.
W.E.H. Stanner ci descrive così l’idea religiosa di possesso della terra:
[…] una credenza che vede legata patrilinearmente ogni gente, clan per clan, lignaggio per lignaggio, a esseri ancestrali con un imperituro legame attraverso la terra e i totem che sono sia manufatti che parti dello stesso corpo di questi mitici antenati. Questa credenza si mantiene sulla fede, non come una “verità ufficiale” o un dogma, ma come parte i un corpo di verità acquisite circa l’universo che nessuno osa mettere in discussione. La fede è auto-autenticantesi.

Proprio questa ultima frase assume grande importanza nella comprensione dei concetti aborigeni, interessante e da rimarcare è il carattere di fede “auto-autenticantesi” che presuppone una vita religiosa in continua evoluzione che trae spunto e si rinnova giornalmente proprio su quella terra da cui è originata.
La citazione di cui sopra pone sul tavolo della discussione argomenti basilari per la comprensione dell’ontologia aborigena: totemismo, progenitori ancestrali, legami con la terra sono concetti cardine e nei capitoli che seguiranno verranno date ampie spiegazioni a riguardo, ma per ora ritorniamo allo specifico del caso.
Il territorio aborigeno come lo conoscono gli odierni abitanti della penisola di Gove è stato creato, alle origini dei tempi, nel mitico Tempo del Sogno, dai progenitori ancestrali (wangarr). Essi, usciti dal terreno, hanno cantato plasmando tutte le cose che si vedono oggi e in questa terra le loro tracce sono ben visibili. Un masso, una pozza d’acqua, una particolare forma geologica possono essere parti del corpo stesso del progenitore o manufatti, lasciti della sua azione.
Per gli aborigeni qualcosa c’è sempre stato, la materia era grezza e non definita, ma gli elementi erano ben distinti tra loro tanto che l’azione dei progenitori fu quella di organizzarli nel mondo come oggi appare.
Negando la creazione ex nihilo, il cosmo aborigeno, con tutti i suoi attori, assume connotazioni di eternità ed entra in una dimensione spazio-temporale ciclica e circolare molto particolare, dimensione definita sapientemente da Stanner “everywhen”.
Ogni persona vivente discende da un antenato mitico totemico, esemplare di una specie animale o vegetale o di un’agente atmosferico, è in lui traccia del suo antenato, la terra del suo antenato è la sua terra. La terra sono le sue “ossa”.
Importante è capire che per gli Yolngu la persona e il posto, il gruppo e la sua terra sono uniti concettualmente e semanticamente, cioè l’identità personale si basa sulla associazione ad uno spirito padre che rimanda necessariamente ad una porzione di territorio a cui lo spirito, e di conseguenza anche i suoi discendenti, è eternamente legato.
Allora, visti i particolari legami di affezione con la terra dati da dichiarate discendenze totemiche che sconfinano nell’eternità dei tempi, è logico aspettarsi una dichiarazione come: “questo paese è sempre stato nostro” in sede di discussione giudiziaria e per contro si pensi al divario tra le concezioni aborigene e occidentali di terra - rapporto rituale-affettivo contro sfruttamento economico - e ben si comprenderà per quale motivo esso non sia potuto essere colmato nel giudizio della Corte Suprema.
Il compito del giudice Blackburn secondo le sue stesse parole era quello di:
tenere a mente il concetto di “proprietà” nella nostra legge e in ciò che io conosco degli altri sistemi che hanno questo concetto, e guardare al sistema aborigeno per trovare che cosa corrisponda o assomigli a proprietà.

La legge australiana ricerca equivalenze con la legge aborigena ma postulando che il concetto giusto di proprietà sia il proprio, sulla base di queste partenza etnocentrica il giudizio che ne scaturì non poteva che essere sfavorevole alle popolazioni private della propria terra.
Come ci riferisce Nancy Williams:
Blackburn riferì delle credenze aborigene circa il possesso della loro terra e trovò che esse non comprendevano nessun elemento “economico” […] la proprietà Yolngu era basata su di un riconoscimento che fu considerato come appartenente alla sfera religiosa, di nessun importanza economica. Per questo non si trattava di legge.

Per operare un giudizio equo e consapevole, una seria indagine circa i concetti e l’organizzazione di gestione del territorio indigeno fu svolta dalla Corte che indagò per molti mesi, e con l’aiuto di testimoni autoctoni, su che cosa significasse e quali fossero le applicazioni della legge aborigena, applicazioni che disvelavano e descrivevano il loro intero sistema ontologico.
La Corte appurò che gli Yolngu organizzano il loro intero universo secondo una opposizione di due blocchi classificatori, due metà chiamate Dhuwa e Yirritja, e che oltre questa globale classificazione una altra regola di discendenza patrilineare stabilisce appartenenza a diversi gruppi (clan) linguistici diversi perché appunto parlanti diverse lingue (matha), i diversi dialetti. Questi gruppi gestiscono la terra e definiscono legami matrimoniali tra loro, come vincoli di alleanza.
Istituzioni rituali sono create per la gestione della terra, ed è dovere di ognuno salvaguardare le risorse e mantenere l’integrità, le terre gestite dalle due opposte metà sono percorse dai sentieri mitici dei progenitori, le tracce del loro passaggio sono la prova di appartenenza e la spinta a “prendersene cura”.
È proprio questa espressione che definisce al meglio il rapporto tra gli abitanti indigeni e la terra: prendersi cura della terra è il dovere principale di ogni aborigeno poiché dalla terra riceve il suo sostentamento e in quella terra ci sono le testimonianze del suo stesso passato.
Alla luce di questa indagine culturale, la Corte Suprema stabilì che effettivamente all’organizzazione rituale aborigena si poteva attribuire un carattere di organizzazione legale:
Le prove mostrano un sottile ed elaborato sistema particolarmente adattato al paese in cui la gente conduce la propria vita, che garantisce un ordine sociale stabile, lontano dalle influenze dei singoli. […] un sistema che può essere chiamato “governo delle leggi e non degli uomini”. […] le prove riconoscono il sistema descritto dagli abitanti indigeni come un sistema a tutti gli effetti legale. Per quanto grandi possano essere le differenze tra il loro sistema e il nostro si tratta solo di differenze di grado.

Il problema al centro del dibattito era però cosa si dovesse intendere essere proprietà in questo sistema aborigeno e se il loro concetto risultava compatibile con quello occidentale.
In pratica, alla luce delle leggi del Commonwealth australiano, gli Yolngu della penisola di Gove, possedevano, a ragione, la propria terra?
In questa discussione entrambe le parti in causa portarono prove a loro favore. La difesa si appellò alla definizione classica di proprietà privata che da Aristotele a Locke aveva legittimato tutte le operazioni di colonizzazione del continente.
Secondo questa ideologia la legittimità della proprietà è data dal lavoro con cui essa è creata e mantenuta, possedere a tutti gli effetti significa sfruttare a scopo di produttività economica.
Così si esprime John Locke:
La cosa più importante della proprietà non sono i frutti della terra, e gli animali che da essa traggono sostentamento, ma la terra stessa. Quanta terra un uomo può piantare, migliorare, mantenere e di cui può usare i prodotti, tanta è la sua proprietà.

Per contro le popolazioni indigene diedero ben altre giustificazioni delle loro rivendicazioni terriere.
Negli atti finali del dibattimento giuridico, nel 1970 a Darwin, gli aborigeni di Yirrkala spiegarono al giudice come i loro padri ancestrali possedessero la terra all’origine dei tempi, come in essa ci fossero serbati oggetti sacri dei progenitori, e come lo stesso fatto di nominare tutte le cose visibili abbia dato loro il diritto di proprietà su di esse.
Ma questo concetto di proprietà non era comparabile con quello occidentale, nell’organizzato sistema aborigeno non “aveva alcun interesse sulla proprietà.”
Il metodo di sfruttamento del territorio non venne compreso a fondo dalla sentenza che prende spunto anche da un’idea espressa da Warner:
[…] il possesso esercitato dai clan sulla terra ha ben poco di economico. Amichevolmente le genti ricercano cibo anche nelle aree altrui, passando magari la maggior parte della propria vita in un altro territorio rispetto a quello d’origine. L’idea dell’uso esclusivo del territorio non è compresa nel concetto indigeno di appartenenza.

Ma nelle prove apportate alla Corte non si parla di possedimento economico a scopo di sfruttamento, è piuttosto un legame che va ben oltre per sconfinare anche nel sacro.
E di sacro si parla quando, a palese testimonianza della storia che ha accompagnato per secoli la vita degli Yolngu nella penisola di Gove, si portano all’attenzione del giudice gli oggetti che proprio descrivono la terra in questione.
È il caso dei ranga
(in lingua Yolngu) tavole o pietre di forma ovale, portano incise sulla loro superficie motivi geometrici che descrivono i viaggi dei progenitori ancestrali attraverso la terra che essi stessi hanno formato. Sono reliquie molto sacre che vengono serbate in posti segreti e portate alla luce solo in occasioni speciali come l’iniziazione, in questa occasione al giovane che sta per diventare uomo vengono mostrati spiegandogli come quelle siano le sue ossa.
In questo motivo ricorrente una caratteristica saliente, a sostegno della vita spirituale, ma anche materiale, le ossa dell’uomo sono oggetti a stretto contatto con la terra. La terra stessa si dimostra scheletro dell’esistenza aborigena, sottrarre la terra significa togliere il sostegno di un’intera cultura.
Questo gli abitanti della missione metodista volevano dimostrare, ma proprio questo fu oggetto del più grosso fraintendimento che portò all’emanazione della sentenza.
Il giudice non ravvisò in questo stretto legame con la terra nessuna di quelle caratteristiche economiche che potevano essere portate a testimonianza di una proprietà tanto che secondo le sue stesse parole “le rivendicazioni nulla hanno a che vedere con la natura degli interessi proprietari”
La proprietà degli Yolngu non aveva nessun fondamento nella legge ma solo nelle credenze religiose.
Il punto frainteso per ignoranza o per interesse fu il mancato riconoscimento dell’equivalenza della sfera del sacro con quella dell’economico.
Nel complesso sistema di organizzazione sociale e rituale degli indigeni australiani ciò che ad occhi occidentali può apparire come diverso è in realtà un’unica realtà.
Per gli aborigeni la religione è la legge, la pratica rituale influenza, ed è parte fondamentale, anche della vita sociale del gruppo: qui sta la differenza fondamentale non compresa, in numerose testimonianze etnografiche alla domanda circa i motivi di questa o quell’altra cerimonia religiosa, gli studiosi si sentono spesso rispondere: “seguo la legge”.
Rom è una parola Yolngu per legge ed ha innumerevoli sfaccettature: legge è l’organizzazione dei matrimoni e la gestione del territorio, legge è l’adeguato comportamento rituale e la storia del passato, legge è il modo di cantare gli antenati.
In sostanza quello che la sentenza Yirrkala fraintese fu il profondo legame attivo e formativo tra uomo e terra; per assurdo questo stretto legame fu visto come una qualità negativa o comunque “primitiva” non equiparabile alla legge occidentale, alla fine delle discussioni si dimostrò come i clan, più che possedere la terra, fossero dalla terra posseduti.
Il clan non ha una significativa relazione economica con la terra. Per contro la relazione spirituale è ben provata, una prova di questo è il fatto che i siti sacri associati con un particolare clan sono localizzati in essa (però talvolta anche altri clan hanno legami spirituali con questi siti altrui). Un’altra prova è che i riti eseguiti dai clan hanno come parte del loro scopo il nutrire e rinnovare la fertilità della terra. Le prove dimostrano che gli aborigeni hanno più un cocente sentimento di obbligo verso la terra che una consapevolezza di possederla. È difficile esprimersi in questi delicati argomenti attraverso l’uso di metafore ma sembra possibile dire che i clan appartengano alla terra più di quanto la terra appartenga ai clan.

Per un legame mitico-rituale-religioso la terra possiede gli aborigeni e questi non hanno verso di essa alcun legame di possesso economico che ne sancisca la proprietà attiva.
La sentenza è emanata: ancora una volta l’etnocentrismo cieco dell’Occidente colonizzatore ha prevalso rispetto ad un “critico” relativismo.
2.6 Il caso Mabo
Un altro avvenimento fondamentale è cronaca dei nostri giorni, di importanza rilevantissima per le sue enormi implicazioni sociali e legali, sarà exemplum per ogni rivendicazione territoriale successiva, questa è la decisione Mabo del 1992.
A distanza di pochi anni, l’insoddisfazione per la sconfitta nella causa Yirrkala viene ripagata con una sentenza che davvero si può definire epocale, dopo questa decisione la stessa legge australiana dovrà cambiare poiché si sarà minato il principio su cui si basavano tutti i diritti di appropriazione del territorio da parte di ogni governo bianco: la dottrina della terra nullius.
Questa dottrina può essere vista sotto due aspetti che andremo ora ad analizzare.
Secondo la prima versione all’arrivo delle flotte inglesi nel XVIII secolo le popolazioni dell’Australia furono ritenute nomadiche e per questo prive di alcun possedimento. L’intero continente non apparteneva a nessuno e fu legalmente colonizzato. Gradualmente nel corso di questi duecento anni la Corona, che possedeva in partenza tutto, concesse alcune terre in prestito o gratuitamente agli aborigeni. Negli ultimi vent’anni il governo ha concesso diritti terrieri alle popolazioni indigene ma questo solo sulla base della sua “buona volontà”.
La seconda versione è radicalmente differente: all’indomani della prima colonizzazione inglese la Corona rivendicò il possesso di molte terre australiane anche se legalmente tutto il continente fu considerato sotto il precedente possesso degli abitanti autoctoni, tutti questi territori furono espropriati indebitamente e senza compensazione alcuna.
In entrambe le versioni la storia però risulta una sola: le popolazioni aborigene si vedono sottrarre la terra che occupavano da quarantamila anni.
Ebbene, la sentenza Mabo sconvolge radicalmente la dottrina della terra nullius decretandola falsa sotto tutti gli aspetti. Prima di questa decisione storica le popolazioni dovevano esibire delle prove riguardo al loro possesso della terra che, secondo lo Statuto, poteva essere loro concessa, ora i gruppi indigeni possono far valere i loro diritti asserendo che “non è nostro onere dimostrare che possediamo la terra. É onere della Corona dimostrare quando e a che titolo ci è stata sottratta”
Ma veniamo ora alla sentenza nello suo svolgimento.
Eddie Mabo nasce nell’arcipelago delle Isole Murray, nello stretto di Torres, a nord di capo York. Negli anni settanta lavora come giardiniere presso l’Università James Cook di Townsville, nello stato del Queensland e partecipa a molti movimenti per il rispetto dei diritti civili.
Nei primi anni ottanta riceve l’incarico - dato il suo interesse per la sua cultura tradizionale - di tornare in “patria” e raccogliere testimonianze circa le storie del suo popolo. Tutte le richieste per l’autorizzazione a recarsi nella sua stessa terra gli sono negate dal governo statale che in quegli anni adotta una politica molto restrittiva riguardo le riserve aborigene.
In quei giorni Eddie Mabo improvvisamente si rende conto di essere in esilio e matura il proposito di portare il caso all’attenzione della pubblica opinione. Con la discussione presso i massimi organi legislativi del paese egli vuole stabilire, in termini normativi occidentali, quello che i gli isolani hanno sempre saputo - che essi possiedono la loro terra.
Il caso, accettato dalla Alta Corte d’Australia, torna alla Corte Suprema del Queensland per la valutazione di fatto del caso; in questo ambito la Corte sancisce seccamente che “ogni diritto che gli Isolani dello Stretto di Torres avevano sulla terra dopo le rivendicazioni del 1879 sono con la presente estinti senza compensazione.”
È proprio su questa affermazione che l’accusa registra le sue prima vittoria: il provvedimento sopraesposto presenta una palese irregolarità: contravviene in pieno al Racial Discrimination Act del 1975.
La soluzione si avvicina e nel Giugno del 1992 l’Alta Corte d’Australia raggiunge la storica decisione:
La comune legge d’Australia respinge l’affermazione che, quando la Corona acquisì sovranità sul territorio, essa acquisì universale e eterno beneficio di possesso su quelle terre.
La comune legge accetta che i precedenti diritti e interessi sulla terra posseduta dagli indigeni abitanti del territorio sopravvissero al cambio di sovranità.
La teorie della terra nullius è respinta dalla comune legge d’Australia.
La comune legge d’Australia riconosce una forma di titolo nativo che, nel caso in cui non sia estinto, riflette il titolo dei suoi abitanti indigeni, in accordo con le loro leggi o costumi, sulla loro tradizionale terra.

Eddie Mabo aveva ragione, egli possedeva la sua terra, ma non perché ne aveva ricevuto il diritto dalla Corona, al contrario egli la possedeva, come ideale lascito dei suoi progenitori, prima della rivendicazione del possesso inglese del 1879. Niente nel lasso temporale che corre tra il 1789 e il 1992 aveva estinto il diritto di possesso degli antichi antenati aborigeni.
La sentenza sconvolge ribalta completamente il giudizio del giudice Blackburn sul Caso Yirrkala che asseriva che i titoli di possesso aborigeni non erano sopravvissuti allo stanziamento inglese e che, a meno che essi non mostrassero una concessione governativa sulla terra concessa dalla Corona, non possedevano niente.
L’Alta Corte ha finalmente riconosciuto il valore che la terra ha nella società aborigena facendo ammenda dei precedenti fraintendimenti:
La società aborigena non era solo differente da quella europea, ma era perfino differente dall’idea che gli europei avevano di società primitive. I colonizzatori non erano consapevoli del fatto che gli aborigeni avessero un legame spirituale con la terra che andava ben oltre il concetto europeo di terra come sfruttabile per ottenere cibo, riparo e status. Questo portò a molti fraintendimenti quando gli aborigeni tentarono di conservare le loro pratiche tradizionali.

La decisione è epocale, da questo momento in poi i diritti delle popolazioni indigene devono essere totalmente riconsiderati.
Dalla sentenza Mabo scaturisce un progetto di legge che si concretizza l’anno seguente, è il documento che definisce legalmente la situazione degli aborigeni ed il loro inalienabile diritto alle terre: è il Native Title Act 1993.
I principali scopi di questa legge sono:
definire e riconoscere il diritto alla rivendicazione terriera da parte delle popolazioni indigene.
stabilire le modalità di concertazione per le future rivendicazione e definire uno standard operativo per questi accordi
stabilire un meccanismo per le rivendicazione aborigene
adattare le disposizioni passate alla legislazione corrente.

La definizione di questo importante atto giuridico non ha però messo la parola fine a tutte le dispute sulla terra, il governo federale corrente ha più volte tentato di porre emendamenti al testo originario con lo scopo di limitare il potere attribuito alle popolazioni indigene.
Sotto il nuovo governo conservatore, il Primo Ministro John Howard ha introdotto in discussione in Parlamento, il 4 Settembre 1997, il Native Title Amendment Bill, basato su un suo stesso piano operativo conosciuto come il Ten Point Plan.
In questo piano, diventato poi legge esecutiva nell’Ottobre del 1998, i diritti e le possibilità di concertazione degli aborigeni vengono drasticamente ridimensionate, in particolare:
I diritti dei prestiti pastorali prevarranno sui diritti di rivendicazione indigena.
Sarà definita una drastica riduzione del diritto di negoziazione delle popolazioni aborigene sulle attività minerarie.
Il potere del Governo sulla gestione delle acque sarà prioritario.
Gli aborigeni non avranno diritto di negoziare sull’acquisizione del Governo di terre vacanti delle Corona situate in città e cittadine.”

Guardando a questi dibattimenti legislativi tuttora in corso non si devono certo dimenticare i grandi passi fatti nelle lotte per il riconoscimento dei diritti della minoranza aborigena, ma allo stesso tempo, come nel caso dell’Atto precedentemente analizzato, bisogna considerare le sentenze nella loro reale applicazione e nei risvolti di tutti i giorni. Allora lì ci accorgeremo che la situazione è ancora problematica e che la sentenza Mabo solo in parte può garantire pieno riconoscimento e pieni diritti territoriali a chi su quelle terre è sempre vissuto.
Il Caso Yirrkala, il Native Title Act e la sentenza Mabo hanno profondamente cambiato i rapporti tra il potere governativo e le popolazioni indigene, rispetto solo a trent’anni fa la situazione ha visto dei notevoli miglioramenti sia sul piano dei diritti umani che civili.
La popolazione euroaustraliana è venuta a conoscenza delle barbarie perpetrate nel corso della politica colonialista e assimilatrice, un forte senso di colpa è presente anche nelle moderne generazioni.
Oggi la politica della riconciliazione è una bandiera che svetta alta sul pennone del nuovo Parlamento di Canberra anche se non mancano iniziative statali o federali per limitare di diritti acquisiti dagli aborigeni. La strada dell’integrazione resta però una via lunga da percorrere.
La lunga esposizione che in questo capitolo si è voluta affrontare in merito ai rapporti tra l’Australia bianca e quella nera sono la dovuta introduzione ad un mondo che, per le sue continue evoluzioni, non è ancora stato studiato fino in fondo.
Nei prossimi capitoli di questa esposizione sarà nostra cura esporre i concetti fondanti dell’ontologia aborigena per dirigerci verso un’interpretazione degli stessi, dimostrando come corpo e terra siano in continuo ed attivo rapporto formatore.